Artemisia Gentileschi: l’opera pittorica di una donna violata

A. Gentileschi, "Autoritratto come allegoria della Pittura", 1638-39

A. Gentileschi, “Autoritratto come allegoria della Pittura”, 1638-39

A titolo puramente introduttivo del presente articolo è opportuno soffermarsi sul concetto di violenza sessuale, perché l’argomento che affronteremo è stato oggetto di controversie negli ambienti artistici, come dimostrano le varie interpretazioni letterarie e cinematografiche della vicenda di Artemisia Gentileschi.
Di recente, la Corte di Cassazione  ha ribadito il proprio consolidato orientamento in tema di reati sessuali, affermando che (1):
“Il consenso al rapporto sessuale deve essere pacifico e ininterrotto, trattandosi di una sfera soggettiva in cui sono tutelati, nella loro massima ampiezza, la dignità e la libertà, sia fisica che psichica della persona. Infatti in tema di libertà sessuale non è necessario che il dissenso della vittima si manifesti per tutto il periodo di esecuzione del delitto, essendo sufficiente che si estrinsechi all’inizio della condotta antigiuridica; conseguentemente l’imputato non può invocare a sua giustificazione di avere agito in presenza di un consenso dell’avente diritto, quando vi è stata la tempestiva reazione della vittima. Un consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609 bis c.p. la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga poi meno a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso”.
La vicenda personale di Artemisia Gentileschi si situa proprio nella dibattuta area di confine tra consenso e dissenso all’espletamento del rapporto sessuale con persona conosciuta.
Ma chi è Artemisia?
Artemisia Gentileschi è stata definita un’icona del femminismo moderno, ma forse sarebbe più corretto ritenerla una singolare espressione di eroismo femminile, che prende forma da un processo di autonomizzazione dal collettivo. Ma è, soprattutto, una grande artista, una tra le prime pittrici e senz’altro la più originale dell’epoca (XVII secolo), “L’unica donna in italia”, a detta di Roberto Longhi , “che abbia mai saputo cosa sia la pittura” (2).
E infatti, anche coloro che la reputano una “minore” le riconoscono una capacità del tutto peculiare: In Artemisia vi è la scoperta di una grande novità ovvero la dimensione dell’alterità pittorica, un differente modo di rappresentare e di vedere la realtà, fino a quel momento caratterizzata al maschile; un modo espressivo “di genere”, antichissimo, eppure del tutto nuovo, perché fino a lei lasciato nel silenzio. Ed è parte personale della difficile vita di Artemisia, il suo processo, un contrappasso quasi obbligato…
Lei, che per prima ha dipinto volti femminili autentici, strappati alle iconiche interpretazioni maschili, divenendo pura interprete del femminino, viene degradata ad un mero oggetto sessuale.
Esiste, quale appendice sacrilega alla sua vita, il tentativo di raccontare la tormentata vicenda processuale, in modo fantasioso e difforme dai documenti, trasformando una sordida vicenda di stupro in una improbabile storia d’amore preromantica, ma non è infrequente per le “icone” essere sottoposte ad operazioni di deformazione.
Proprio per questo, nella narrazione della vicenda personale dell’artista è necessario mantenere il contatto con i documenti originali, nella convinzione che le grandi personalità non meritino definizioni “sacrileghe” né richiedano “ritratti” celebrativi. Lo sfondo storico è quello che meglio consente di contestualizzare la grandezza di Artemisia perché è lì che emerge il suo coraggio, reso esemplare proprio dal suo status di donna del ‘600: una donna stuprata che può ottenere parziale giustizia solo affrontando un processo infamante ed essendo sottoposta lei, la vittima, ad una dolorosa tortura mentale e fisica. L’interessante documento giuridico (3) ci consente di esplorare come veniva istruito e come si svolgeva in quegli anni un processo: l’uso della tortura, la manifestata volontà da parte degli accusati di proteggere tanto i propri misfatti quanto la propria Ombra nefasta, scaturita, ieri come oggi, da un’identità inintegrata, escludente il carico del confronto con l’altro da sé.
“Ieri in Pretura” potrebbe intitolarsi altrimenti il presente articolo, ma purtroppo scopriamo, con preoccupazione, che i pregiudizi che afflissero gli anni di Artemisia sono ancora oggi vivi, magari inespressi, non più dichiarati e tuttavia presenti nell’inconscio.
Artemisia Gentileschi (4) nacque a Roma l’8 luglio del 1593, da Orazio, pittore pisano dagli iniziali stilemi tardo-manieristi, trapiantato a Roma, e da Prudenzia Montone, che morì quando Artemisia era bambina.
Il padre, in seguito considerato uno dei migliori pittori della cerchia del Caravaggio, totalmente “rapito” dal suo furore espressivo era spesso assente dalle responsabilità della conduzione familiare, affidata essenzialmente alla moglie.
Artemisia fu iniziata precocemente all’attività pittorica e in tal senso la sua formazione iniziò proprio col padre, nella sua bottega in via Margutta: “Dall’età di cinque anni, Artemisia riduceva in polvere i pigmenti, preparava le tele, confezionava le vernici. Con lui la piccola faceva un apprendistato che tutti i suoi allievi avrebbero potuto invidiarle. Francesco, il fratellino, non riusciva a starle dietro. Lei sembrava sempre più svelta, più diligente, più dotata degli altri. Però era femmina. E presto o tardi sarebbe stato necessario separarsene, offrendola a Dio o a un marito. Una femmina che dopo i funerali della madre si ritrovava senza dote, in miseria e nella solitudine”. (5)
Sappiamo che Artemisia iniziò giovanissima le sue prime prove di pittura, incoraggiata e seguita dal padre, che probabilmente vedeva in lei la rivelazione delle proprie abilità di maestro più che di genitore.
Orazio, dopo aver scoperto l’enorme talento della figlia, decise di affidarla all’abilità artistica di Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil, scenografo e pittore, con il quale stava lavorando alla loggetta del cardinale Borghese. Fu così che Agostino entrò nella vita dei Gentileschi, cominciando a frequentare la loro casa, in via della Croce. Violento, truffaldino, invischiato in un numero imprecisato di procedimenti penali, incarcerato ed esiliato più volte, libertino, mandante di diversi omicidi tra cui (pare) anche quello della moglie, debitore incallito, dal quale pretendere un pagamento poteva essere un’impresa rischiosa.
E poi, la più infamante delle accuse per un pittore, quella di aver usato la sua attiva bottega anche come fucina di falsi, confezionati da lui stesso o dai suoi garzoni. Un delinquente, insomma, che però per anni fu una vera e propria stella del firmamento artistico della fine del ‘500 e della prima metà del ‘600. A lui si rivolsero papi e cardinali per affrescare le stanze dei palazzi più prestigiosi della Città Eterna.
La moglie, Maria Cannodoli, era stata stuprata da lui e successivamente sposata. La donna lo lasciò a causa della sua infedeltà, preferendogli un mercante di Lucca. Agostino Tassi era stato infatti l’amante di Costanza, sorella minore di Maria, che aveva accolto in casa come figlia, da che era rimasta orfana. Resosi responsabile della gravidanza della giovane cognata, all’epoca quattordicenne, Agostino aveva indotto un suo allievo, Filippo Franchini, a sposarla, dietro ricompensa di una dote cospicua.
Il legame tra Agostino e Costanza non finì e il pittore visse addirittura in casa Franchini un menage a trois. L’ossessione di Tassi era l’impiccagione, perché egli sapeva che giacere con la sorella della moglie era l’equivalente di un incesto: Roma puniva quel crimine con la morte; se ne faceva carico Paolo V, Camillo Borghese. Agostino fu infatti accusato dalla sorella Olimpia di adulterio e incesto con la cognata, e processato.
Protagonista di più di un processo, il Tassi si accese di passione per Artemisia, che nel frattempo diventava una donna di particolare bellezza e un’artista eccellente. Agostino aveva già sentito parlare della giovane Gentileschi e quando la conobbe iniziò a corteggiarla. Artemisia, pur non essendo indifferente al fascino di quell’artista “maledetto”, dai burrascosi trascorsi, di cui aveva sentito parlare dal padre Orazio, si sottrasse alle insistenti richieste d’intimità di Agostino.
Il 9 Maggio del 1611 l’abusiva protervia maschile del Tassi violò il giovane corpo di Artemisia, fossilizzando, in quell’adolescenza già tormentata per la prematura perdita materna, l’impronta ulteriore di un vissuto doloroso ed ingombrante. Tassi, già suo insegnante di prospettiva e personaggio fin troppo compromesso da una visione fallocentrica ed erotomane, orientata alla funzionalità oggettivata e sessualmente strumentale del corpo femminile (risultando già precedentemente coinvolto in numerosi processi per stupro, atti di libidine violenta e incestuosa), segnò non solo la vita personale dell’avvenente fanciulla, ma anche il suo iter artistico, che recò per sempre la traccia della violenza subita.
Un anno dopo lo stupro, Orazio Gentileschi scrisse una lettera di supplica al papa Paolo V, affinchè venisse istruito il processo contro Agostino Tassi. Nella lettera si fa riferimento anche al furto di un non meglio identificato quadro: “Iuditta, di capace grandezza”. La Garrard (6) ha ipotizzato che il quadro oggetto della disputa fosse la prima raffigurazione del soggetto di Giuditta da parte di Artemisia.
Probabilmente più che la volontà di giustizia fu la rivalità fra artisti e il mancato rispetto della promessa matrimoniale avanzata dal Tassi a spingere il Gentileschi a chiedere al Papa di procedere contro il pittore, il quale aveva “forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più e più volte” la figlia.
Artemisia, un mese dopo il processo, nel novembre 1612, sposò Pietro Antonio Stiattesi, lasciando Roma per Firenze. Abbandonare Roma fu una scelta dolorosa, ma necessaria: l’artista si allontanava da un passato tormentato e da un padre ingombrante, di cui ben presto avrebbe rinnegato il cognome, preferendogli quello dello zio, Lomi.
La Città dei papi era ormai impraticabile per lei, come donna, della quale si sottolineavano continuamente le caratteristiche di licenziosità sessuale.
L’iter probatorio culminò nella drammatica tortura delle “sibille” (cordicelle strette attorno alle dita), inflitta dagli inquisitori ad Artemisia per accertare, secondo la significativa mentalità giurisprudenziale dell’epoca, l’attendibilità della ragazza.
Il reato di stupro veniva in quei tempi considerato e punito secondo i criteri dell’integrità socio-morale più che della dignità della persona e la giovane poteva ricevere giustizia solo se, attraverso procedure “discutibili”, veniva dimostrata l’avvenuta deflorazione, segno tangibile della perdita dell’onore.
Il processo, che durò dal marzo all’ottobre del 1612, vide sfilare un numero infinito di testimoni che pare facessero a gara per mentire. Artemisia e Agostino continuarono a ribadire gli stessi argomenti: lei sostenendo di essere stata ingannata e violentata, lui dicendo che lei mentiva e che era da tutti risaputo che era “donna di malaffare”. Agostino fu condannato, ma non scontò mai la pena né si allontanò da Roma.
Gli atti del processo illustrano non solo la condotta dell’accusato, che coerentemente con i suoi tratti di personalità, mistificò le circostanze dell’accaduto, ma anche i metodi utilizzati per l’accertamento della verità nei confronti della vittima.
Dopo la dolorosa vicenda personale, Artemisia, retta da una dignità esemplare per una donna dell’epoca, cominciò a rielaborare in maniera originale lo stupro subito, che ovviamente fu solo moderatamente attribuito alla violenza del Tassi, dal momento che i più si chiedevano se non fosse stata consenziente ai ripetuti atti sessuali.
Forse Artemisia era realmente innamorata di Agostino, e questo spiegherebbe le allusioni alla sua capigliatura corvina, presenti in alcuni celebri quadri, di epoca precedente al misfatto. Ma basta il sentimento della vittima per decidere delle modalità di consumazione dell’amplesso, della liceità di un atto? Sono interrogativi questi che investono l’area della vittimologia, ma soprattutto la sfera degli affetti privati, che non può mai prescindere dal rispetto altrui.
La pittrice rielaborò personalmente il suo rapporto col maschile, come si evince da due dei suoi più celebri quadri: Susanna e i vecchioni (1610), collezione Schönborn, Pommersfelden (Fig.1) e Giuditta che decapita Oloferne (1620 ?), Uffizi, Firenze (Fig.2)  dove la figurazione narrativa riflette i tratti di un percorso autobiografico.

Fig.1: "Susanna e i Vecchioni"

Fig.1: “Susanna e i Vecchioni”

Fig.2: "Giuditta che decapita Oloferne"

Fig.2: “Giuditta che decapita Oloferne”

In particolare, si osserva l’esplicarsi di un rovesciamento simbolico: Susanna e i vecchioni, infatti, esplicita il reattivo segnale difensivo della fanciulla dall’avvertita minaccia incombente da parte della coppia maschile, mentre le modalità della morte di Oloferne inscenano l’idea di un vendicativo rito sacrificale compiuto da due donne, secondo una sanguinosa liturgia rappresentativa che emula uno stupro, stavolta di oggetto maschile, realizzando così, nel ritmo compulsivo dell’atto omicida, una risposta figurativa altrettanto violenta di quella precedentemente subita.
Non appare dunque casuale l’allontanamento di Artemisia dal racconto della tradizione biblica, che non menziona la figura attiva della fantesca all’esecuzione del generale assiro, quasi a proporre una contingente necessità di alleanza femminile per condurre a termine un inevitabile “proposito di genere”, in una situazione che potrebbe essere definita come l’esigenza di annullare la violenza subita mediante un rovesciamento di prospettiva, dal significato catartico.
“Il colpo di genio è quello di aver messo nel quadro due donne (…) che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere una massa enorme, il cui peso supera le forze di una sola donna” (7). La complicità tra donne, tema ricorrente nell’opera della pittrice, serviva forse a compensare il dolore di un’amicizia tradita, quella per Tuzia, vicina di casa, amica e modella, che durante il processo fu sospettata di favoreggiamento. Se è vero che in “Susanna e i vecchioni” viene documentato l’apprendistato degli insegnamenti di Orazio, per la particolare modulazione di luce ed ombra e per il rigore del disegno anatomico, la postura dei personaggi è un evidente richiamo al Michelangelo della Cappella Sistina (Peccato Originale e Cacciata dal Paradiso terrestre, 1509-1511), anche se la particolare configurazione del femminile lascia intravvedere un vigore espressivo personalissimo, che erompe dalla sfera affettiva. Dal sentire al creare il passo è breve: ogni lavoro creativo si fonda sul presupposto di un coinvolgimento intenso, un’esperienza “sensoriale” che lega il soggetto all’oggetto che andrà a rappresentare. Se poi l’impulso creativo si inserisce in un percorso di rielaborazione personale, come in “Giuditta che decapita Oloferne” è possibile che elementi individuali si sommino ad elementi archetipici, conferendo all’opera un’intensità simbolica universale. Alla base della trasformazione c’è la solitudine che questo processo apre. In solitudine è possibile ‘ascoltare’ l’immaginazione, prestare il tratto alla funzione mitopoietica della psiche.  La vera ‘cura’ è un incantesimo che si realizza quando la dedizione dell’artista all’immaginale, innesca una ‘risposta estetica’ necessaria al risveglio della realtà psichica.
Il vero colpo di genio di Artemisia, forse, consiste nell’aver attinto ad una forza interiore fino a quel momento rimasta inespressa, a causa della supina accettazione di regole e condizionamenti provenienti dall’ambito paterno, che avevano limitato gli orizzonti della sua espressività.
Dalla vicenda dello stupro in poi emerse a viva forza l’esigenza di un’autonomia artistica quanto personale. La stessa autonomia che la indusse a distanziarsi affettivamente dal marito che non amava, per dedicarsi alla coltivazione di se stessa e della sua arte sublime.…

Marialuisa Vallino

Note:

1. Corte di Cassazione – Sezione III penale, Sentenza 29 gennaio 2008, n.4532: Violenza sessuale- Consenso della vittima; inoltre, “Il consenso della vittima agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità”. Così, Corte di Cassazione – Sezione III penale – Sentenza 3 aprile 2013 n. 15334.

2. R. Longhi, “Gentileschi padre e figlia”, in: L’Arte, n.19, 1916.

3-4. Le notizie biografiche riguardanti Artemisia sono tratte da più fonti, tra cui: A. Lapierre, “Artemisia”, Oscar Mondadori, 2000 e Artemisia Gentileschi, “Lettere, precedute da Atti di un processo per stupro”, a cura di E. Menzio, Abscondita ed., 2004.

5. A. Lapierre, “Artemisia”, op. cit, pag.38.

6.Mary D. Garrard, Artemisia Gentileschi The Image of the Female Hero in Italian Baroque Art, 1991.

7.Roland Barthes, Nota su “Giuditta e Oloferne”, in: Artemisia Gentileschi, “Lettere…”, op.cit. pag.150.