L’uomo insostenibile: dalle configurazioni interiori agli scenari sociali

L’uomo insostenibile: dalle configurazioni interiori agli scenari sociali

L’Uomo Insostenibile 

di Enrico Franceschetti

Locandina Convegno

Locandina Convegno

Napoli, 7 Giugno 2014, Maschio Angioino c/o Società Napoletana di Storia Patria

L’uomo si è fatto insostenibile, non solo per l’universo di cui è parte dipendente, ma perfino per la propria stessa sopravvivenza, troppo inconsapevolmente astratta per mantenersi funzionale al sistema.

Buio. No, non il buio consueto, quello intorno (e talvolta dentro) al quale c’è la luce. No. Un buio-assenza, un buio vuoto. In questo incommensurabile nulla, un inafferrabile istante. Genesi 1,1-2,4 – 1,1. Nel principio DIO creò i cieli e la terra. 2 La terra era informe e vuota e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso; e lo Spirito di DIO aleggiava sulla superficie delle acque. 3 Poi DIO disse: «Sia la luce!». E la luce fu. 4 E DIO vide che la luce era buona; e DIO separò la luce dalle tenebre. 5 E DIO chiamò la luce “giorno” e chiamò le tenebre “notte”. Così fu sera, poi fu mattina: il primo giorno. Le fonti scientifiche descrivono quei primi momenti in modo analogo. Su Wikipedia si legge, fra l’altro: “L’universo inizialmente era omogeneo, isotropo, con una densità energetica estremamente elevata. All’incirca 1037 secondi dopo l’istante iniziale, una transizione di fase causò un’inflazione cosmica, durante la quale l’universo aumentò le sue dimensioni esponenzialmente…. Dopo circa 379.000 anni, gli elettroni e i vari nuclei si combinarono formando gli atomi (soprattutto idrogeno); a partire da questo istante, la radiazione si disaccoppiò dalla materia e continuò a vagare libera nello spazio”. Il buio non era più assenza, era buio-luce, era energia, alta o bassa, ma pur sempre energia. Che sia una narrazione mitico-misterica, o che sia il risultato di decenni di studi di tipo scientifico, l’assonanza fra le due prospettazioni del momento della nascita dell’universo così come lo percepiamo è indubbia. Se la condizione originaria era quella dell’assenza di “energia” (lasciamo questo termine non definito, in modo che in ognuno possa assumere spontaneamente la più naturale valenza intuitiva, piuttosto che cognitiva) dalla sua “improvvisa” insufflazione nel sistema è derivata la “creazione”, da cui noi stessi dipendiamo in quanto entità capaci di autocoscienza. Dall’energia e dal modificarsi dei suoi stati dipende tutto il sistema di cui facciamo parte. Dal cambiamento di stato dell’energia dipende ogni “lavoro”, ogni azione. Da un livello di energia alto si tende ad uno basso per quindi raggiungere il c.d. equilibrio “mortale” (morte termica), ma l’universo, e ogni sistema vivente, non può morire di morte termica in quanto, a fronte dell’entropia che vi opera, vi è un processo opposto sintropico di reintegrazione dell’ordine. Dall’oscillazione fra yin e yang scaturisce il divenire sensibile. Perfino la materia è energia. La materia è tutto ciò che ha massa e dimensioni ed è energia in forma di riposo. Materia ed energia sono quindi aspetti diversi di una stessa entità fisica. Di queste realtà abbiamo, nel corso degli ultimi secoli, acquisito una consapevolezza scientifica ma, stranamente, ne abbiamo perso l’esperienza interiore, quasi che l’una non possa coesistere con l’altra. Renè Guenon nella sua “Crisi del Mondo Moderno” attribuisce ad una vera e propria deviazione culturale lo smarrimento del senso metafisico (inteso nel senso etimologico del termine “oltre il fisico, il materiale”) dell’uomo occidentale: “…É cosi che prese nascita quel che noi possiamo chiamare Ia filosofia «profana», cioè una pretesa sapienza puramente umana, quindi d’ordine semplicemente razionale, prendente il posto della vera sapienza tradizionale, superrazionale e «non-umana». … È il punto al quale, nei tempi moderni, doveva condurre il movimento iniziato dai Greci; le tendenze già affermate da questi poterono allora esser portate fino alle loro estreme conseguenze e l’importanza eccessiva accordata dai Greci al pensiero razionale doveva accentuarsi fino a giungere al «razionalismo», attitudine specificamente moderna che consiste non più nel solo ignorare tutto ciò che è d’ordine superrazionale, ma nel negarlo senz’altro”. Aver scelto la ragione, o meglio la logica, quale unico parametro qualificante e praticabile sia nell’ambito della conoscenza che della vita quotidiana, ci ha letteralmente strappato via una componente essenziale del nostro essere, quella componente emotivo-percettiva che pure invece gioca un ruolo decisivo in ogni relazione ed in ogni azione compiuta. Se n’è abbandonata da un lato l’educazione, con tutte le conseguenze relazionali che ben conosciamo, e dall’altro l’esercizio. Così facendo, peraltro, si è provveduto a quello che lo psicologo Zoia definisce “la morte del prossimo”. Egli sostiene che il secolo scorso è stato quello in cui il senso di prossimità, la capacità di “sentire” chi è al nostro fianco, è finita. Egli ritiene che tale morte del prossimo sia solo un “secondo passaggio”, dopo la “morte di Dio” di Nietzsche. Scrive: “Prima è morto Dio, ora è morto il prossimo, il risultato è la totale solitudine dell’individuo”.

L'intervento dell'avv. Franceschetti

L’intervento dell’avv. Franceschetti

Il risultato? L’uomo ha perso prima lo sguardo verso l’altro e poi lo sguardo intorno a sè. L’unica cosa su cui può puntarlo oggi è se stesso. La sterilizzazione della comunanza empatica e l’ubiqua celebrazione del diritto egoistico al soddisfacimento immediato di ogni proprio bisogno anche “contro” l’altro, hanno indebolito la società in quanto rete di individui interconnessi e dipendenti, e ci hanno consegnati, come singoli inermi, al controllo dei grandi centri di manipolazione di massa. Tali centri di manipolazione, a loro volta, quasi come primitivi leviatani, rispondono ai medesimi criteri di autodeterminazione ed autoconservazione che connotano i singoli animali; da ciò deriva la loro necessità di cibarsi continuamente di risorse (drenate proprio dagli individui isolati) e di condizionare l’ambiente circostante in modo che sia sempre più idoneo alla propria sopravvivenza.  Che però non è quella degli individui di cui si alimenta. Per citare un brano del grande scrittore di fantascienza Isaac Asimov (dalla novella “Macchie verdi”): “*… questo è proprio il tipo di vita che esiste sulla Terra: il tipo di organizzazione che noi possediamo, nei confronti di quella esistente sul Pianeta di Saybrook, è un enorme cancro. Ogni specie, ogni individuo fa del suo meglio per prosperare alle spese di ogni altra specie e di ogni altro individuo…*”. L’essere umano tanto si è imposto sul pianeta come specie dominante (non so dire se ciò sia stato in bene per la salute del pianeta stesso), sol perchè ha saputo colmare le inadeguatezze dei singoli con l’interazione di gruppo. L’animale uomo (di cui nella sua opera “La scimmia nuda” si occupa efficacemente Desmond Morris) era un predatore insufficiente, rispetto ad altri molto più efficaci e potenti. Ma si è posto al vertice della catena alimentare grazie alla propria capacità di operare in gruppo, in solidarietà. E’ ancora così? E’ ancora l’uomo al vertice della moderna catena alimentare? Oppure è in corso una lotta fratricida con una sorta di “razza” iperumana differente, formata da Moloch multinazionali, che per prendere il sopravvento ha scelto di demolire la forza dell’unione, della prossimità, per renderci tutti più deboli e quindi… edibili? Il nostro accettare questi moderni imperativi culturali, non è forse fortemente disfunzionale rispetto agli interessi di sopravvivenza dell’Uomo? Tutto questo perchè la scelta culturale di una parte dell’umanità è andata verso la prevalenza della logica razionale rispetto alla sfera emozionale-percettiva. Peraltro, mi sentirei di notare che la scelta della “ragione” (in senso logico-razionalistico) quale unico sentiero percorribile per la nostra esperienza cognitiva ci ha anche assuefatti a ritenere che la “ragione” (in senso di “giustizia”) dovesse essere sempre e comunque unica ed univoca, laddove ogni sapere tradizionale ci insegna che solo dalla continua alternanza fra “ragione e torto”, ovverosia fra bianco e nero, è la vita. Anche in questo, ovvero nella progressiva incapacità di mediare con “gli altri”, si è ulteriormente cristallizzata questa forma di isolamento moderno che si estrinseca poi anche nei movimenti xenofobi, razzisti ed intolleranti di cui le cronache sono piene. La sconnessione fra ragione e percezione ha implicato quindi una serie di mutamenti culturali e comportamentali di natura individuale e relazionale. Ma non solo. Nell’antichità gli esseri umani, ancora relativamente deboli rispetto all’ambiente circostante, avevano sviluppato diverse capacità che favorivano la loro sopravvivenza. Il gioco di squadra, cui abbiamo già fatto cenno, e il radicamento nei luoghi da cui traevano protezione e risorse, attraverso una conoscenza complessa che integrava tecniche di sfruttamento del territorio con pratiche di tutela e conservazione, perfettamente adattate ai micro-sistemi in cui erano inseriti. Anzi, di più: ad ogni luogo, ad ogni fonte, ad ogni anfratto, era stata riconosciuta la sua identità spirituale. Secondo Servio, “nullus locus sine Genio (nessun luogo è senza un Genio)” (Commento all’Eneide, 5, 95). Il Genius Loci era il nume, era l’impronta energetica soprannaturale, unica ed indistinguibile, che connotava il posto. Quella energia era un Dio, magari secondario e minore, o un Essere dotato di individualità precipua e/o appartenente ad un genere particolare. Penso alle Ninfe, legate a tutte le acque, e successivamente alle Fate, concettualmente connesse al “fato”, che governavano boschi e territori incontaminati, accogliendo e difendendo i viaggiatori, talvolta, o scacciando i perturbatori, talaltra. E, dopo l’avvento del cristianesimo, alla sopravvivenza del Piccolo Popolo, o degli Elfi… tutti accomunati dalla precipuità energetica dei luoghi e tutti gradatamente ritiratisi al sopravvenire dell’avvelenamento dei territori originariamente incontaminati in direzione delle Terre Imperiture di Arda, a Valinor, dove si trova Lórien, il giardino edenico del Vala Irmo (J.R.R. Tolkien). D’altro canto, non era proprio Platone, nel Timeo (dialogo cosmologico), a sostenere che: «Questo mondo è un essere dotato d’anima e di intelligenza, generato dalla provvidenza di Dio» (30 B-C) (Pachamama: significa in lingua quechua Madre terra. Si tratta di una divinità venerata dagli Inca e da altri popoli abitanti l’altipiano andino, quali gli Aymara e i Quechua. È la dea della terra, dell’agricoltura e della fertilità.) Ancora, nell’Epinomide (dialogo sulle scienze numeriche), Platone amplia l’orizzonte: «I corpi celesti sono esseri viventi, e anzi si può dire che nel loro insieme costituiscano il genere divino degli astri, a cui è toccato il corpo più bello e l’anima più felice e perfetta» (981 E – 982 A). Il grande pensatore attribuiva evidentemente un’anima anche a creature diverse dall’uomo e pur sempre diverse dall’insieme indistinto del tutto. Plotino, pensatore nato a Licopodi, in Egitto, tra il 203 ed il 204 d.C., e morto in Campania tra 269 ed il 270, riteneva anch’egli che esistesse un’anima mundi – quale seconda emanazione, dopo l’intelletto (nous), di Dio-Uno – ma era anche convinto che le anime singole fossero parti dell’anima del mondo (L’Anima del mondo, meglio nota in latino come Anima Mundi, è un termine filosofico usato dai platonici per indicare la vitalità della natura nella sua totalità, assimilata a un unico organismo vivente. Rappresenta il principio unificante da cui prendono forma i singoli organismi, i quali, pur articolandosi e differenziandosi ognuno secondo le proprie specificità individuali, risultano tuttavia legati tra loro da una tale comune Anima universale. e che anzi l’anima del mondo fosse reperibile in ogni luogo. Fonte: Wikipedia). Per noi, oggi, comprendere fino in fondo il senso di una tale integrazione dinamica fra luoghi, risorse e comunità umana è difficile. non solo per la sciagurata scelta razionalistica di cui s’è già fatto cenno, ma anche perché lo sviluppo tecnologico, ampliando man mano il nostro potere materiale, ci ha sempre più svincolato dalla dipendenza e quindi dalla interazione con i luoghi, privandoci al contempo della capacità di coglierne le peculiarità. In qualche modo, man mano che abbiamo ampliato il nostro orizzonte “operativo”, abbiamo perso il dettaglio. La globalizzazione distribuisce non solo prodotti, ma pensieri e sentire uguali, indipendentemente dalle aree nelle quali cui essi trovano origine. L’uomo si è separato dal proprio ambiente di nascita, ha abbandonato la terra, creando una nuova superficie concettuale da abitare, che non coincide più con la litosfera ma che si trova più in alto, senza toccarla. Non ha profondità ma solo estensione orizzontale. Non è radicata con il pianeta, ma lo ricopre senza soluzione di continuità. Non ha interazione con esso, se non per il prelievo dei materiali necessari e per la dispersione degli scarti. La connessione ombelicale si è spezzata, non è più percepita, e con essa è mancata totalmente la sensazione dell’energia, sia dell’organico che dell’inorganico. La necessità di procurare risorse che assicurino l’alimentazione dell”animale uomo, ha generato una impronta ecologica sempre più squilibrata. Al momento, in base ai dati riscontrabili con facilità su Wikipedia, da alcuni studi effettuati su scala mondiale e su alcuni paesi emerge che l’impronta mondiale è maggiore della capacità bioproduttiva complessiva. Secondo Mathis Wackernagel, nel 1961 l’umanità usava il 70% della capacità globale della biosfera, ma nel 1999 era arrivata al 120%. Ciò significa che stiamo consumando le risorse più velocemente di quanto potremmo, cioè che stiamo intaccando il capitale naturale disponibile e che nel futuro potremo disporre di meno materie prime per i nostri consumi. Ciò comporta innumerevoli conseguenze di ordine materiale, che finiscono con l’influire pesantemente sul piano culturale, sociale e spirituale. Basti pensare agli imponenti flussi migratori innescatisi a seguito dello squilibrio dello sfruttamento, e della disponibilità, fra il sud ed il nord del mondo occidentale, ed a tutto quello che ciò comporta in termini non solo economici e geopolitici ma soprattutto di contrasti sociali e religiosi. Oppure al progressivo, e sempre più irreparabile, avvelenamento dei terreni agricoli, delle fonti di acqua potabile, derivanti dalla necessità di smaltire sostanze di sintesi, del tutto estranee al ciclo naturale e come tali letteralmente “insostenibili” dal punto di vista ecologico. O ancora al parallelo esaurirsi delle materie prime, fra le quali perfino l’acqua dalle falde, che produce desertificazione irreversibile di intere contrade una volta fertilissime. L’elenco potrebbe allungarsi a dismisura, sia in dimensione che in estensione. Potrebbe anche estendersi all’immateriale, sol che si consideri come, a mero titolo di esempio, la percezione della morte e del suo dolore sia sfuggita ai moderni occidentali, che macellano milioni di esseri viventi in modo totalmente dimentico di ciò che questo comporta. Il consumo smodato di carne è dimentico delle urla di dolore o dagli sguardi terrorizzati degli animali massacrati. Solo così riusciamo a disporre con tanta irresponsabile indifferenza di questa risorsa, su cui edifichiamo commerci, ricchezze e spesso anche abusi. D’altro canto, lo stesso facciamo sfruttando coltivazioni intensive e manodopera sottopagata e tenuta in condizioni prive delle più elementari garanzie umanitarie. Siamo lontani dai loro occhi. Troppo lontani. Siamo ormai lontani da noi stessi. L’uomo si è fatto insostenibile, non solo per l’universo di cui è parte dipendente, ma perfino per la propria stessa sopravvivenza, troppo inconsapevolmente astratta per mantenersi funzionale al sistema. Certo non dovunque è così, non per tutti, è così. Sovviene alla mente il grande movimento di cultura della terra e delle risorse alimentari, che prende origini proprio dal nostro territorio piemontese. Mi riferisco a “Terra Madre”, soggetto-rete nato da una costola di “Slow Food” che ha organizzato, dal 2004 diverse kermesse internazionali per “mettere in pratica ciò che è stato definito «glocalismo»: un insieme di azioni su scala locale con l’obiettivo di avere importanti ripercussioni a livello globale” attraverso il recupero del rapporto con i luoghi e con la loro natura. Per “riconciliare il genere umano con la Terra”. Eppure, nonostante le voci che, come Terra Madre, si alzano in vari punti del globo, la sensazione generale è che la corsa verso il Kali Yuga (il Kaliyuga, lett. “era del punteggio perdente”, corrispondente nei miti greci all’età del ferro, è l’ultimo dei quattro yuga; si tratta di un’era oscura, caratterizzata da numerosi conflitti e da una diffusa ignoranza spirituale. Essa cominciò con la morte fisica di Krishna (avvenuta, secondo il Surya Siddhanta, il trattato astronomico che costituisce la base del calendario indù, alla mezzanotte del 18 febbraio 3102 a.C.) e durerà 432.000 anni, concludendosi nel 428.899 d.C.: Kalki, decimo e ultimo avatara di Viṣṇu, apparirà in quell’anno, a cavallo di un destriero bianco e con una spada fiammeggiante con cui dissiperà la malvagità. Il Kali Yuga è l’ultimo dei quattro Yuga, e alla sua fine il mondo ricomincerà con un nuovo Satya Yuga (o Età dell’oro); questo implica la fine del mondo così come lo conosciamo (più di ciò che accadde alla fine degli altri Yuga, perché la Storia cadrà nell’oblio) e il ritorno della Terra ad un paradiso terrestre) sia di fatto inarrestabile. Scrive Guenon: “Sembrerebbe invero che un arresto a metà strada non sia più possibile e che, secondo tutte le indicazioni fornite dalle dottrine tradizionali, si sia veramente entrati nella fase finale del kali-yoga, nel periodo più oscuro di questa «età oscura», in uno stato di dissoluzione da cui non è possibile uscire se non con un brusco rivolgimento, poiché una semplice rettificazione non è piú sufficiente e un totale rinnovamento appare necessario. Il disordine e la confusione, dal punto di vista superiore, che qui vogliamo assumere, regnano in tutti i domini, e sono giunti ad un grado che sorpassa di molto quanto si era già visto in precedenza…”. Sebbene tale deduzione contrasti violentemente con lo spirito “di sopravvivenza” che connota ogni essere umano, e me per primo, il mio sentire più profondo, se ascoltato, avverte la verità che in essa è contenuta. Da ciò deriva però una domanda, che lo stesso Guènon in verità ha posto ben prima di me: quale è la ragion d’essere di un periodo, come quello che viviamo? In termini di conoscenza tradizionale, non dovremmo dolerci del “cupio dissolvi” che questo ciclo manifesta, posto che ad esso non potrà che succedere un’era migliore. Tale ultima certezza non deriva da un atto di fede, o solo da una intuizione avvertita oltre la ragione; tutto questo è stato previsto dalla dottrina degli antichi, e molteplici sono le fonti che ne trattano, dispersi sotto mille latitudini e nel corso di ere da noi anche molto distanti. Da ciò deriva la semplice constatazione della fondatezza dello schema generale. Ma su scala più ridotta, addirittura personale, la risposta alla domanda posta può, definendo un senso, alleggerire lo sgomento che inevitabilmente l’animo avverte di fronte all’incombente oscurità. Pertanto il nostro compito, come individui e come uomini liberi e consapevoli, può forse essere quello di fungere da ponte, portando con noi la fiaccola della conoscenza (residua?) affinché non venga persa nel passaggio fra le ere, tornando a splendere limpida come un faro dopo “la notte oscura dell’anima”. Con una premessa indispensabile, però: Il bisogno fondamentale dell’Uomo è di vivere insieme ai suoi fratelli, di sentirli tali, di confrontare la propria vita con quella del prossimo, di raffrontare con esso gioie, dolori, sacrifici e vittorie. Senza questo, come testimonia l’angoscia esistenziale dei contemporanei, il destino individuale e collettivo è infausto. E’ necessario quindi che il nostro livello di consapevolezza si rialzi, per prendere coscienza di questo lavorio silenzioso e disfunzionale, e contrastarlo. Ora, non domani! Lo abbiamo già detto, non sfugge come l’Universo trovi la propria dinamicità nel pendolo fra opposti. Periodi di nero devono alternarsi a fulgidi bianchi, perchè la vita possa continuamente rigenerarsi. In fondo, come amava dire Erich Fromm: “una società progredisce attraverso i conformisti ma anche grazie, contemporaneamente, agli anticonformisti”, perchè occorre stabilità ma occorre anche il gesto rivoluzionario che induca al cambiamento. Allo stesso modo, la coscienza della solidarietà (intesa nel senso di “solidus” latino, quindi di corpo unico) deve alternarsi a momenti in cui essa va indebolita a vantaggio di altre cognizioni. Purchè però tutto ciò non si tramuti in sopraffazione e violenza, ma diventi conoscenza utile e fertile, è indispensabile che sia resa consapevole alle menti ed ai cuori. Nel Levitico (terzo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana) vi è la prescrizione “amerai il prossimo tuo come te stesso”. Essa viene ripresa e confermata nella parola di Cristo, così come in ogni altro messaggio sapienziale successivo. Si badi: non si prescrive di amare solo se stessi **e** gli altri. No. Non basterebbe. Si ordina: ama l’altro **come** te stesso. Provoca brividi la forza che emana da questa proposizione: il sentire l’altro come noi stessi è la forza invincibile della vita, è la forza, ed insieme il limite, della libertà. E’ l’unica immensa risorsa dell’Uomo. Se la libertà, il libero arbitrio, ci conferisce potere sul mondo, sulla materia e perfino sul nostro prossimo, cosa ne sappiamo fare senza il limite di questa prescrizione? Una risposta possibile è il dramma della Shoah, quando l’uomo ha ritenuto di far Dio in se stesso, arrogandosi il potere di decidere la vita e la morte di milioni di individui “inferiori”. Se io non sento e non mi pongo in prossimità, se io non sono capace di avvertire l’altro, se mi privo di questa energia, la libertà diventa un’affermazione vuota, egoistica, addirittura terrificante. Diventa una **“libertà contro”**. Perchè sia libertà fertile, deve essere fratellanza. Così, solo così, l’uomo può diventare Uomo, del quale ogni altro è davvero Fratello, in comunione con l’ambiente sociale e quello naturale, per essere non solo sostenibile ma proiettato verso il futuro.

Alcune riflessioni sull’intervento dell’Avv. Enrico Franceschetti presentato nell’ambito dell’omonimo convegno.

di Marialuisa Vallino

Lodevole l’iniziativa di affrontare tematiche inerenti la perdita dell’Armonia e di offrire degli spunti di riflessione sulla condizione umana. Pregevoli gli interventi. Sono particolarmente interessata a tutto ciò che, in un modo o nell’altro, si colloca in una dimensione di “ordinaria insostenibilità”, e in essa rientra purtroppo l’inutile sterminio di animali, lo sfruttamento dei più deboli, e quella diffusa “tendenza misogina” che umilia tanto l’identità femminile quanto quella maschile. Indipendentemente dal genere d’appartenenza, “insostenibile” è anche tutto ciò che rivela nell’individuo l’inesorabile declino verso il distacco, l’indifferenza, l’impossibilità della mediazione tra l’ideale e il reale, il rifiuto della complessità. Tutti questi aspetti, che sembrano essere limitati a particolari “condizioni”, sono in realtà le evidenze dolorose e drammatiche di una “cultura del controllo” e dei principi di sopraffazione su cui essa si fonda. Che si tratti di piccoli o grandi delitti, abbiamo l’obbligo morale di occuparcene, di riconoscere il “Male”, di integrare la nostra Ombra…“L’uomo”, osserva Franceschetti, “ha perso prima lo sguardo verso l’altro e poi lo sguardo intorno a sè. L’unica cosa su cui può puntarlo oggi è se stesso”. Potremmo aggiungere che il mancato riconoscimento dell’alterità amplifica quella dimensione autoreferenziale, narcisistica che scivola inesorabilmente verso l’affermazione del “diritto egoistico”. Ogni identità, privata del confronto con l’altro, avverte così, in modo più o meno traumatico, più o meno evidente, una sorta di ferita nel suo intimo, una breccia che mina la propria illusione di universalità e completezza. Conoscersi significa andare oltre l’immagine del proprio volto diurno, significa attingere agli aspetti inconsci di sé, alla realtà immaginale. La vita è, sin dall’inizio, improntata alla capacità di far coesistere la realtà “inferiore” e quella “superiore”, la parte inconscia con quella razionale, convertendo il caos primordiale in cosmo. Nella relazione di Franceschetti si avverte la necessità di celebrare, recuperandone il senso, la continuità ciclica dell’uomo con l’ambiente circostante, con l’Universo, e si sottolinea il ruolo di quella “coniunctio” tra elementi opposti presente in numerosi sistemi mitologico-religiosi e filosofici, che ammettono la coesistenza e l’integrazione di principi differenti. Opportuno il rimando ai principi cosmici della tradizione taoista, dove la qualità Yin, femminile, riflessiva, centripeta, concorre alla dialettica tra opposti il cui polo maschile è rappresentato dall’impulsivo e centrifugo Yang. Quando l’individuo si apre ad un dialogo vivo con se stesso, raggiunge quel centro divino da cui scaturisce ogni ordine e organizzazione, il , per dirla con Jung, sovraordinato, profondo e ignoto che segretamente compone il senso stesso del vivere. La dinamica trasformativa dell’essere, il senso di continuità dell’Io con l’Universo collettivo non può fondarsi su una visione unilaterale: “Aver scelto la ragione, o meglio la logica, quale unico parametro qualificante e praticabile sia nell’ambito della conoscenza che della vita quotidiana, ci ha letteralmente strappato via una componente essenziale del nostro essere, quella componente emotivo-percettiva che pure invece gioca un ruolo decisivo in ogni relazione ed in ogni azione compiuta”. Jung rintracciò nella misteriosa opera dell’alchimista la proiezione della dinamica trasformativa dell’essere, finalizzata alla distillazione della conoscenza a partire da quella nera prima materia che già contiene in sé il progressivo organizzarsi della vita. Qual è il senso del nostro vivere? Che significato possiamo assegnare all’ordine cosmico e come possiamo difenderci dal “lavorio silenzioso e disfunzionale” che contrasta gli equilibri tra gli esseri viventi? Come ricorda Hillman [1], in greco la parola kosmos era originariamente un’idea estetica e politeistica: indicava la giusta collocazione delle cose e veniva adoperata soprattutto in riferimento agli ornamenti femminili. Gli Stoici usavano kosmos per l’anima mundi. La bellezza visibile dell’anima non può manifestarsi che in un contatto profondo con se stessi. L’Uomo, osserva ancora Franceschetti, “Non ha profondità ma solo estensione orizzontale”. E questa evidenza è il frutto di un “meccanismo rispecchiante” derivante dal bisogno di conformarsi e di aderire ad un universo collettivo di riferimento ormai lontano da ogni forma di rispetto per l’altro. D’altra parte, è sufficiente leggere le pagine di cronaca per ricevere un quadro descrittivo preciso delle infinite declinazioni patologiche e criminologiche cui impotenti assistiamo. Le condotte violente, poi, si insinuano in ogni piega del vivere quotidiano…Il Principio separatore, l’egemonia del Logos e ogni logica razionale di sopraffazione non possono far altro che indirizzare nostalgicamente il nostro sguardo al  carattere uroborico del culto delle Dee-Madri, alla circolarità e ricorsività del Tempo Mitico, ai cicli rigenerativi della vita…Il nostro augurio è che l’umanità possa recuperare una dimensione “alchemica”, in cui gli opposti possano dialogare. Gli alchimisti volevano trasformare i metalli vili in oro, ma probabilmente la ricerca del lapis era soprattutto ricerca dell’esperienza interiore, vocazione all’approfondimento. Solo il bisogno di completezza e totalità possono ricondurre l’uomo nei sentieri dell’anima e del “fare anima”. Quando siamo ‘toccati’ dalle cose, siamo in contatto con un’esperienza estetica che ci apre alla vita, dilatandone i confini. E la Vita, da quel primigenio caos iniziale, diviene progressiva consapevolezza, forgiata e animata dall’amore, dalla spontaneità, dalla libertà rispetto agli stereotipi, dal contatto fecondo con l’altro da Sé. In altri termini, è Uomo non chi annulla brutalmente ogni potenzialità espressiva, alternativa, ma chi è in grado di reggere la tensione tra opposti, di vivere in stretta contiguità con I’ignoto, con l’imprevisto, col perturbante. Citando Aldo Carotenuto, “la vera peculiarità del creativo è quella di poter sempre risorgere dalle ceneri, anche quando si tratta dei frammenti della sua anima bruciata”.

Dedicato a chi ci ama e ci sostiene, a chi rispetta ogni forma di libertà. A chi (ancora) non è in grado di fare ciò.


[1] J.Hillman, “L’anima del mondo e il pensiero del cuore”, Adelphi, Milano, terza ed., maggio 2005, pag.83

Afrodite: la Grande Dea di Cipro e il suo universo simbolico

Afrodite: la Grande Dea di Cipro e il suo universo simbolico

Testa di Afrodite
II-I sec. a.C.
Kourion, Villa dei Gladiatori,
Scavi del Dipartimento di Antichità
Museo di Episkopi

 

Inno:

Canterò la bella, veneranda Afrodite dalla corona

d’oro, che protegge le mura dell’intera Cipro

circondata dal mare, dove l’umido soffio di Zefiro

la portò sopra l’onda del mare risonante,

nella morbida spuma. Le Ore dall’aureo diadema

la accolsero con gioia e le fecero indossare vesti divine;

sul capo immortale le posero una bella corona

d’oro, ben lavorata, e ai lobi forati appesero

fiori d’oricalco e d’oro prezioso;

le ornarono il collo delicato e il petto bianchissimo

con collane d’oro, che le stesse Ore

dall’aureo diadema indossano quando si uniscono

all’amabile danza degli dèi, nella casa del padre.

Quando terminarono di ornare le sue membra,

la presentarono agli immortali: vedendola, essi

le davano il benvenuto, le tendevano le mani, e ciascuno

desiderava portarla a casa sua come legittima sposa,

poiché ammiravano l’aspetto di Citerea coronata di viole.

Salve, dea dolcissima dagli occhi brillanti: concedimi

la vittoria in questo concorso, e ispira il mio canto.

E io canterò te e anche un’altra canzone (1).

A margine di questo componimento poetico che glorifica la bellezza di Afrodite, una precisazione: l’intento di chi scrive è quello di accogliere la dea nella psicologia, non certo per fondare un moderno santuario, ma per recuperare la sua immensa portata simbolica. Occorre superare le riduttive definizioni, quali mero Principio di Piacere, per poter rendere giustizia ad Afrodite, riconsegnando la sua figura a quella dignità mitica che ne fece, in tempi a noi lontani, una funzione trascendente. La bellezza che celebreremo, attraverso l’archetipo Afrodite, non è l’estetica dell’ornamento, ma la complessità che naturalmente emerge dai suoi numerosi epiteti, dalle rappresentazioni figurative, dalla varietà dei miti che la riguardano. La bellezza della dea, come ricorda Hillman, è espressione del dispiegarsi del giusto senso al tempo giusto, come sembra suggerire la presenza delle Ore, al momento del suo apparire tra i mortali. La sfera della bellezza, come ho precisato nel mio saggio, “La cintura di Afrodite”, riguarda soprattutto l’intensità dell’esperienza estetica, fondata sull’attività immaginativa, che rende possibile l’apertura simbolica in grado di congiungere gli opposti, favorendo nuove opportunità di crescita. La vita richiede attenzione e passione, la ricerca continua di senso che attraversi le vie “infere” e le vie “supere”. Afrodite insegna che occorre aprirsi al mondo, uscire dai limiti ristretti del narcisismo e del soggettivismo, ricreare se stessi mediante l’istinto e plasmare l’esperienza in un confronto dialogico con gli altri. La sfera della psicologia, al pari di Afrodite, include ogni forma di Verità creata dai contrasti dell’anima…e la mitologia ci mette in grado di percepire ed esperire la vita dell’anima in maniera universale.

Afrodite: dal greco Άφροδίτη, dea greca della bellezza, dell’amore e della fertilità, identificata con la Venere romana. Nonostante l’origine non greca, il suo culto fu estremamente diffuso nel mondo greco e greco-coloniale; i santuari più importanti erano a Pafo, Amatunte, nell’isola di Cipro, Corinto, Erice. Dati archeologici, letterari ed epigrafici, sottolineano la centralità di Afrodite nel pantheon locrese (Locri Epizefiri)Secondo Esiodo (Teogonia), la dea sarebbe nata dal membro evirato di Urano e rappresenterebbe una forza naturale pre-cosmica; in Omero invece è figlia di Zeus e Dione. Platone distingue tra una Afrodite Urania, identificandola con l’amore celeste, e una Afrodite Pandemia, personificazione dell’amore terreno. Le sue prerogative, in realtà, erano molteplici e il mito ci tramanda la relazione della dea con le forze indomite della natura.

Epiteti e funzioni:

Afrodito (Ἀφρόδιτος), Afrodite in forma maschile, proviene da luoghi di culto in cui la dea veniva venerata in forma maschile; Macrobio nei Saturnalia (3. 8. 2-3) rivela la presenza di una statua eretta a Cipro, in cui Afrodite è raffigurata con corpo di donna e barba sul volto. Probabilmente, ci si riferisce alla doppia natura della Dea; 

Ambologera (ἀμβολογήρα), colei che non invecchia mai, colei la cui bellezza non deperisce. Pausania lo riferisce come un epiteto della dea presso gli spartani;

Anadiomene (ἀναδυομένη), l’emergente, colei che sorge dalle acque, in riferimento all’Afrodite Anadiomene, un dipinto andato perduto di Apelle di Kos;

Androphonos, sterminatrice di uomini, assassina;

Anosia, l’empia;

Basilis, regina;

Callipigia, dalle belle natiche, compare in Ateneo;

Chryse, l’aurea;

Chrysostephanos, la Dea con la corona d’oro;

Cipride (κύπρις), letteralmente, originaria di Cipro, in riferimento al mito che la vede sorgere dalla spuma del mare presso Cipro (dove la dea godeva di un culto particolare). Il termine compare per la prima volta in Omero;

Colpode (κολπώδες), sinuosa, in riferimento alla dea che indossa il kolpos ovvero quella parte del chitone ionico che fascia morbidamente il seno;

Cytherea con riferimento al suo approdo sull’isola di Citera;

Despina (δέσποινα), sovrana, (prosatori attici);

Dolòploke, tessitrice di inganni;

Enoplia, incatenata;

Epitymbia, colei che sta sulle tombe;

Etera (ἑταίρα), amica, compagna, etera;

Filommedea, amante dei genitali, “perché apparve dai genitali [il membro evirato di Crono]” (Esiodo, Teogonia );

Genetyllis, sulla costa attica, come divinità tutelare della nascita;

Idalia, venerata nel santuario di Idalio, nell’isola di Cipro;

Kyprogenea, dea nativa di Cipro;

Melena o Melenide, la nera;

Morfo (μορφώ), letteralmente, colei che ha una forma. Intesa come armoniosa e come sinonimo di bellezza, compare in Licofrone e Pausania;

Ourania, la Dea celeste;

Pandemia Nel Simposio di Platone (discorso di Pausania) si distingue tra Afrodite Pandemia o popolare, figlia di Zeus e di Dione e Afrodite Urania o celeste, figlia del dio del cielo Urano e priva di madre;

Pasiphaessa, colei che splende ovunque;

Persephaessa, come regina degli inferi;

Polikilòtron, seduta su un trono variegato, immagine presente in Saffo; la divinità in Età Arcaica era infatti spesso raffigurata assisa sul suo trono;

Porne (πόρνη), meretrice;

Skotia, la scura;

Sosandra, colei che salva gli uomini;

Tymborychos, la seppellitrice;

Vergine, colei che è una in se stessa.

Pétra tou Romíou

Prima tappa: Cipro

L’isola di Cipro venne considerata nell’antichità come il luogo di nascita di Afrodite: Omero sottolineava, attraverso l’epiteto Κύπρις, il legame tra la divinità ellenica tutelare dell’amore e l’isola di Cipro. Anche Esiodo ci tramanda un’Afrodite Cyprogenea ché nacque in Cipro, molto battuta dai flutti. A sud dell’isola, non troppo distante dalla città di Pafo, c’è un luogo chiamato Pétra tou Romíou dove la tradizione colloca l’approdo della dea veneranda e bella. Cipro, in epoche diverse, e attraverso le varie dominazioni, conobbe il culto di una Grande Dea, legata alla fertilità, inizialmente venerata in forma aniconica, e successivamente identificata con Afrodite. I riti compiuti in suo onore ci vengono tramandati da Licofrone, Catullo, Virgilio, Pausania. Il percorso indicato vi permetterà di seguire le orme di Afrodite nel luogo associato alla sua origine, visitando i siti archeologici dedicati al suo antico culto, tra i quali quelli di Palaipafos (Kouklia), dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità, Amathous e Kition. Questi tre siti principali sono a loro volta collegati ad altri siti e musei che espongono oggetti cultuali associati alla dea. Itinerario culturale

Seconda tappa: Iconografia

L’immagine di Afrodite compare in numerosi esemplari, fin dall’epoca arcaica, nella ceramica, nella scultura, in pittura, su conii. Tra i rilievi, particolare importanza rivestono quello del Trono Ludovisi (Roma, Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps) e la figura del frontone orientale del Partenone (tav.1); tra le statue sono da ricordare quelle che si ispirano all’Afrodite Cnidia di Prassitele, e all’Afrodite Anadiomene di Apelle.

Tav.1:

Hestia, Dione e Afrodite dal frontone orientale del Partenone 447-432 a.C., marmo, altezza di Dione cm 140 Londra, British Museum

Hestia, Dione e Afrodite dal frontone orientale del Partenone
447-432 a.C., marmo, altezza di Dione cm 140
Londra, British Museum

Nel frontone orientale del Partenone, il gruppo di figure acefale (da sin.): Hestia, Dione e Afrodite. Afrodite riposa, sciolta e rilassata, in grembo alla madre Dione, che la sorregge con le ginocchia e le cosce. Il braccio sinistro di Dione circonda la spalla sinistra di Afrodite. Con l’avambraccio destro, Afrodite si appoggia al grembo della madre in atteggiamento disteso. Le vesti avvolgono i corpi vigorosi e pienamente sviluppati. Il gioco delle loro pieghe è veramente un’eco centuplicata dell’immagine (Goethe). Un evidente legame simbolico si attua nell’inscindibile raffigurazione del gruppo, non solo per la fusione tra corpo e veste, ma anche per la fusione tra madre e figlia. Le due figure fanno pensare a due precise e inconfondibili individualità che convergono in un’arcaica rappresentazione del femminile: secondo W. Fuchs, Afrodite guardava nello specchio d’oro posto nella sua mano sinistra e contemplava così, contemporaneamente, se stessa e la madre.

AFRODITE: GALLERY

Terza tappa: L’amore

Afrodite tra Ares ed Efesto

“Ares Ludovisi”, Età romana, con interventi di restauro ad opera del Bernini, Roma, Museo Nazionale a Palazzo Altemps.
Efesto (Vulcano), Marmo di Guillaume Coustou, Museo del Louvre, Parigi.

Ares è associato al furore bellico, mentre Efesto è noto come dio dell’elemento igneo, abile nell’arte di lavorare i metalli. Secondo Omero, sia Efesto che Ares erano figli di Era e Zeus, versione che non trova corrispondenza in Esiodo. Efesto fu allontanato dalla sacra soglia dell’Olimpo in ragione della sua deformità fisica, recando, sin dal momento della sua nascita, non solo i segni fisici di una disabilità, ma anche la ferita infertagli dai genitori, attraverso il rifiuto. Efesto, il dio-fabbro zoppo, “signore” dell’elemento igneo e dei metalli, doveva essere in origine un dio del passaggio nell’aldilà, storpio perché segnato dall’iniziazione, opportuno paredro della Grande Dea da cui derivò Afrodite. Il dio, in termini simbolici, rappresenta una particolare modalità di entrare in rapporto con la vita, decisamente antipodica rispetto a quella di Ares. In Omero, la moglie di Efesto è Afrodite, colta in flagrante adulterio ed esposta dal marito allo scherno degli dei, insieme al suo amante Ares. La visione negativa di Ares ci viene tramandata prevalentemente da Omero: i passi dell’Iliade ce lo presentano con vivide immagini, come amante dei combattimenti, desideroso di sangue e di strage, ma del dio si conoscono e apprezzano anche il coraggio e il ruolo di “guida degli uomini giusti” (Inno ad Ares) (2). Se accostato ad Afrodite, genera Eros, Armonia, Anteros, Deimos e Phobos, tutte “caratteristiche” che attengono alla dimensione amorosa. Come ricorda Jean Shinoda Bolen (3), l’archetipo Ares è presente nelle reazioni appassionate e intense. Ares, quindi, nei suoi aspetti migliori, può essere associato alla forza interiore che è in grado di mettere in moto l’eros, mentre Efesto “crea” la relazione partendo dalla “fucina dell’anima”, e il suo matrimonio con Afrodite è fondato non tanto sulla passione travolgente, quanto su quella inespressa, vissuta interiormente, tipica degli introversi. Afrodite, per quel che attiene alla sfera delle relazioni, agisce sulle due opposte polarità divine maschili, generando la passione e la possibilità di vivere un amore travolgente (Ares/Eros), e offrendo l’opportunità di cogliere, attraverso l’innamoramento, nuove risorse interiori e una maggiore fiducia nelle proprie capacità (Efesto). Afrodite è moglie infedele perchè ha bisogno di sperimentare tanto l’eros travolgente quanto una certezza di stabilità, di muoversi cioè tra la profondità dei sentimenti (Efesto) e la loro espressione concreta (Ares). L’ambito rappresentativo di Efesto risulta limitato se non lo si integra con quello di Ares e il discorso è reversibile. Un amore, oltre che sulla passione, dovrebbe fondarsi sulla costanza e la progettualità, la creazione continua. La fucina di Efesto è il laboratorio interiore da cui partire, e il fuoco di Ares è anche l’elemento con cui Efesto può forgiare “oggetti” preziosi, liberando il rapporto da un eccesso di Deimos e Phobos, il terrore dell’abbandono, la paura di lasciarsi andare. Come Efesto, ognuno di noi, ricorda Hillman (4), porta una ferita genitoriale e ha un genitore ferito. L’amore, insegna il mito, è una traiettoria di senso tra il dolore e la capacità di credere in una rinascita, che dobbiamo percorrere con sentimento e coraggio.

Marialuisa Vallino

Note:

1: VI. Inno ad Afrodite, in Inni omerici, a cura di Giuseppe Zanetto, BUR, RCS Libri, Milano, seconda ed.

2: VIII. Inno ad Ares, op. cit.

3. J.S. Bolen, Gli dei dentro l’uomo, Astrolabio, Roma.

4. James Hillman, Saggi sul puer, Cortina, Milano.

Per approfondire:

Bolen Shinoda Jean, “Le dee dentro la donna”, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1991,

Bolen Shinoda Jean, “Gli dei dentro l’uomo”, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1994,

Esiodo, “Teogonia”, a cura di Graziano Arrighetti, BUR, Milano, XIII ed., 2004,

Graves Robert, “I miti greci”, trad. it. di Elisa Morpurgo, X  ed., Longanesi, Milano 1994,

Hillman James, “L’anima del mondo e il pensiero del cuore”, Adelphi, Milano, terza ed., maggio 2005,

Hillman James, “La giustizia di Afrodite”, Edizioni La Conchiglia, Capri, 2008,

Kerényi Károly, “Gli dei e gli eroi della Grecia”, il Saggiatore, Milano, 2001,

Omero, “Iliade”, traduzione di Giovanni Cerri, BUR, I classici blu, Milano, 2005,

Omero, “Odissea”, a cura di E. Cetrangolo, RCS Libri, S.P.A., Milano, 4° ristampa, 2004,

Platone, “Simposio o sull’amore”, traduzione e cura di F. Zanatta, Universale economica Feltrinelli, Milano, quinta ed. gennaio 2006,

Vallino Marialuisa, “La cintura di Afrodite. La bellezza delle dee e l’anima delle donne”, Progedit ed., Bari, 2013.