Il Sogno, il Mito e il Cinema: scenari immaginali e mutazioni, Giornale Storico del CSPL, n.34.

Il Sogno, il Mito e il Cinema: scenari immaginali e mutazioni, Giornale Storico del CSPL, n.34.

 

 

 

Marialuisa Vallino, articolo: Il Sogno, il Mito e il Cinema: scenari immaginali e mutazioni, pag. 82 del Giornale Storico del CSPL, fondato da Aldo Carotenuto, n. 34-Mutazioni-

ABSTRACT

Mutazióne è un termine con cui si designa il mutare, il mutarsi, l’essere mutato ed implica il cambiamento, la trasformazione. La metamorfosi riguarda il mutare forma, aspetto connesso alla figura mitologica di Proteo, le cui caratteristiche sono: svelare la verità e mutare aspetto. Il sognatore e il regista condividono con Proteo la capacità di ricreare, di aprire la realtà immaginale alla sfida del mutamento. L’immagine non si identifica con un singolo contenuto, ma si ritrova in ogni altro contenuto, così come l’attività immaginativa non è una fuga dalla realtà, ma un’esperienza vivificante che può sia ‘informare’, sia ‘trasformare’ la coscienza. La nascita contemporanea del Cinema e della Psicoanalisi, alla fine del XIX secolo, ha contribuito a determinare, sin dal principio, un dialogo incessante tra le due ‘discipline’ e il presente articolo ne sottolinea il legame. I riferimenti agli aspetti inconsci sono presenti nelle opere cinematografiche in modo più o meno esplicito, basti pensare al tema del “Doppio” e alle sue modalità rappresentative. Il cinema, inoltre, ha spesso usato il sogno come espediente ‘esplicativo’ o vero punto di partenza per la trama. Immagini e rappresentazioni sono concetti interrelati e connessi al divenire, al perenne fluire della psiche. Accanto al carattere ‘onirico’ della visione filmica, è possibile rintracciare il carattere ‘filmico’ della visione onirica. I sogni presentano numerose corrispondenze con le immagini dei film. Il mio contributo illustra l’attività creativa connessa alla dimensione immaginale che nel sogno come nel cinema si sviluppa a partire da quella ‘chiamata’ all’avventura che caratterizza anche l’eroe del mito. Molte storie cinematografiche possono essere analizzate ricorrendo al paradigma del monomito individuato da Campbell che si inserisce come trait d’union tra mitologia e cinema. La potenza delle immagini si accentua nella misura in cui vengono in luce determinate situazioni archetipiche che al di là del tempo e dello spazio mettono in scena la complessità della vita e i suoi sviluppi. Per certi versi, il cinema è in grado di creare veri e propri modelli di eroi e antieroi, quali ‘mutazioni’ da motivi archetipici.  Ho dedicato particolare attenzione al cinema noir, la cui cifra distintiva rappresenta l’altrove, non di rado connotato in termini orrorifici; il dubbio e la paura connessi all’Altro, gli aspetti inquietanti che si celano al di là del visibile, l’angoscia del limite e gli aspetti oscuri che ciascuno reca dentro di sé sono motivi che attengono alla sfera individuale, ma anche collettiva.

Il Sé tra Amore e Morte: Soffio, di Kim Ki-duk

Il Sé tra Amore e Morte: Soffio, di Kim Ki-duk

Regia: Kim Ki-duk
Sogg. e sceneggiatura: Kim Ki-duk,
Interpreti: Chang Chen, Zia, Ha Jeong-woo, Hang In-hyeong, Kim Ki-duk
Orig: Sud Corea,2007

Trama: Yeon vive in una fredda casa modernista con un marito fedifrago e una figlioletta. Ascolta alla Tv di un uxoricida del luogo, Jang Jin, condannato a morte, che ha tentato in cella il suicidio. Decide di andare a trovarlo in carcere, dotandosi di un ricco materiale d’arredo e d’abbigliamento. Ad ogni incontro, che diventa sempre più intimo, allestisce, all’interno del parlatorio, una “stanza della stagione” e canta per Jang Jin una canzone corrispondente. La sua solitudine e  il disprezzo per il marito che la tradisce le permette di reinventare la sua esistenza in un altrove dalla sua casa. Il loro rapporto viene controllato dal direttore del carcere, che interrompe a suo piacimento i loro incontri. Nell’ultimo incontro, con un bacio, Yeon tenterà di strappare al suo amante la vita…

Un bacio ad alto voltaggio è l’ennesima trovata (quattordicesimo lungometraggio) del regista coreano, genio indiscusso della settima arte, la cui cifra distintiva lo inserisce a pieno titolo tra i più abili “alchimisti” dell’immagine. Realismo fantastico direbbe lui, per connotare il suo stile espressivo. Noi ci limitiamo a cogliere nel suo straordinario talento il ricorso continuo ad un “manuale di simbologia” che amplifica il dato reale per nutrirlo di ulteriori immagini che ne aumentino il volume e lo spessore e ne liberino la fecondità.
Già nel titolo è suggerita la dimensione simbolica presente nella trama. Un universo surreale, sorretto da alcune geniali invenzioni visive è quello dove si muovono Yeon e Jang Jin. Un altro uomo, un’altra donna che ripercorrono, seppure in ordine inverso, i destini di Sun- hwa e Tae-suk (Ferro 3), dando vita ad una relazione tanto intensa quanto improbabile. Anche qui, come nei film precedenti, di cui ci siamo già occupati, rimane inalterato il bisogno di creare nuovi movimenti affettivi, capaci di scardinare i vincoli imposti o subiti dal collettivo.
Il collettivo è all’interno della dimensione coniugale di Yeon, sposata ad un uomo che la tradisce e non esita a liquidare l’amante con una “correttezza” tanto ovvia da apparire grottesca. Il collettivo è all’esterno di questa famiglia: nel suo gelo, nella sua squallida e vuota routine che assembla le vite degli altri con una ritualità ossessiva e priva di senso. Il collettivo è lo sguardo voyeuristico che spinge fuori da sé il bisogno di ricomporre in unità la propria ineludibile solitudine.
Dopo, forse, c’è l’individuale, quel che resta a chi non osa incominciare una nuova vita e tuttavia ripercorre le tappe del proprio essere al mondo, nel tentativo di costruire una dimensione altra rispetto a quella reale. Al centro, una donna, un’artista, che come Pigmalione, delusa da una vita insignificante, cerca nell’arte scultorea un senso e un progetto da trasferire successivamente in una sequenza di atti cui l’opera d’arte sembra velatamente accennare…
Tra i due estremi, l’individuale e il collettivo, c’è il Sé, quel nucleo profondo e inviolabile della Personalità, che contiene in nuce il graduale cammino di autoconsapevolezza. Yeon, qui come altrove, non è tanto una donna, ma è una personificazione dell’Anima, l’altro polo di cui la Personalità maschile ha bisogno per la sua progressione. Yeon è il tramite perfetto tra dannazione e redenzione, tra desiderio e destino, tenerezza e violenza, Vita e Morte.
Tra la vita e la morte, un bacio. Un soffio, un respiro, la psiche, l’anima, seguendo il titolo etimologicamente. Il significato originario della parola ‘psiche’ deriva dal verbo greco psychein (soffiare) e letteralmente significa qualcosa che è assimilabile al respiro. Nel film, Soom in coreano, sembra esserci  una velata allusione alla pratica biqi detta del  grande giro, un esercizio taoista che consiste nel trattenere il respiro il più a lungo possibile, al fine di eliminare i “blocchi” che, secondo questa teoria, sarebbero all’origine di una qualsivoglia malattia. Seguendo una chiave di lettura psicologica, il soffio di vita che Yeon insuffla nel suo amante è anche soffio di morte, perché nell’atto di sospensione del respiro vitale c’è l’esercizio che consente di accostarsi all’immortalità. L’apnea è una sorta di disgregazione della dimensione corporea che consente di accedere alla natura reale della mente. Vita- Morte- Rinascita sembrano essere le tre tappe cui il cineasta coreano sembra alludere, dal momento che il soffio che unisce i due amanti si inserisce in un destino di redenzione reciproca. Grazie a Yeon, il condannato a morte prende coscienza del ciclico alternarsi delle stagioni della vita: primavera, estate, autunno e inverno, che qui come altrove rappresentano 4 stadi del divenire. Jang Jin sembra non possedere memoria né vitalità e la sua esistenza prende le mosse solo con l’ingresso inatteso di Yeon. E’ questa figura femminile, che lascia ad ogni passaggio un segno tangibile della sua presenza, a conferire senso e spessore alla vita del condannato. Presenza e assenza, tracce indelebili e tuttavia soggette alla legge dell’impermanenza. Le foto che Yeon lascia al suo amante vengono a questi sottratte dai compagni di cella, così come l’allestimento della stanza della stagione, che sembra connotarsi nei termini di uno spazio sacro, viene di volta in volta distrutto e buttato via.  La felicità non deriva tanto dalle cose materiali, quanto piuttosto dalla lenta acquisizione del principio di non-attaccamento e di impermanenza che permette appunto di poter sospendere gli eventi all’interno della vacuità. “Un giorno, alla nostra morte, perderemo tutti i nostri beni, il potere, la famiglia, tutto. La libertà, la pace e la gioia nel momento presente sono le cose più importanti che abbiamo, ma senza una comprensione risvegliata dell’impermanenza non ci è possibile essere felici…Se avessimo compreso davvero che la vita è impermanente, faremmo tutto il possibile per rendere felice l’altra persona già qui e ora…” (Thich Nhat Hanh, Il segreto della pace, Oscar Mondatori, Milano, 2003).
Qui, come in Ferro 3 la prigione non è tanto una limitazione della propria libertà, quanto piuttosto l’occasione per ripensare se stessi, vivendosi nell’attimo presente e nel presente cogliere l’inesorabile compiersi del destino individuale. Ma c’è qualcosa nella vita che contempla già l’idea della morte, nel soffio, che è anima allo stato puro. Seguendo l’impostazione junghiana, Yeon potrebbe rappresentare una mediatrice dell’ignoto, la personificazione di un segreto disegno che sembra riflettere una superiore conoscenza delle leggi della vita. In questo essa è Anima: è anima mundi, ma è anche la mediatrice del passaggio in una sfera di rinascita per la vita di Jang Jin. La metafora del condannato a morte esprime in Kim Ki-duk  la condizione di prigionia dell’Io e in tutti i suoi film questo stato presuppone la possibilità di un riscatto, anzi la esige. La donna, allora, è per l’uomo una porta verso l’interno, e in questo è giustificato il ricorso al soffio, l’intensa consapevolezza che all’interno sta la vita quanto la morte. Jung definisce Anima “l’archetipo del femminile” e “l’archetipo della vita”, e traccia inoltre un’analogia tra Anima e lo Yin e l’anima p’o dei cinesi; tra Anima e i concetti indiani di Māyā e Śakti; infine la collega con la Sofia degli gnostici, amplificandone la gamma emotiva e riferendola ad una vita che proietta fuori di sé la coscienza, una vita che è dietro la coscienza. Anima diventa così “la portatrice primordiale della psiche, ovvero l’archetipo della psiche stessa”( James Hillman, “Anima”, Gli Adelphi, Adelphi ed. Milano, 2002).
Il direttore del carcere rappresenta il mediatore tra la realtà individuale e quella collettiva, l’istanza di controllo, ma anche la legge del Tempo storico, cronologico, che può portare a compimento o, al contrario, interrompere drasticamente gli eventi, lasciandoli in uno spazio indefinito. Il soffio è l’accesso ad un altrove che è oltre lo spazio e il tempo; è il Tempo individuale che ricrea l’universale, secondo una legge interna, che nella Vita anticipa la Morte, confermando solennemente l’Eternità.

Marialuisa Vallino

Quando la seduzione risveglia l’autenticità: “Il truffacuori” di Pascal Chaumeil

Quando la seduzione risveglia l’autenticità: “Il truffacuori” di Pascal Chaumeil

locandina

Regia:  Pascal Chaumeil
Sceneggiatura:  Laurent Zeitoun, Jeremy Doner, Yoann Gromb
Direttore della fotografia:  Thierry Arbogast
Musiche:  Klaus Badelt
Scenografia:  Hervé Gallet
Costumi:  Charlotte Betaillole
Coreografia:  Christophe Danchaud
Casting:  Tatiana Vialle
Durata: 105 min

– Francia, Principato di Monaco – 2010

PERSONAGGI E INTERPRETI
Alex:  Romain Duris
Juliette:  Vanessa Paradis
Mélanie:  Julie Ferrier
Marc:  François Damiens
Sophie: Helena Noguerra
Jonathan:  Andrew Lincoln
Van Der Becq:  Jacques Frantz
Florence:  Amandine Dewasmes
Dutour:  Jean-Yves Lafesse
Goran:  Jean-Marie Paris

“Amare è un’augusta occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualche cosa, diventare mondo, un mondo per sé in grazia di un altro, è una grande immodesta istanza che gli viene posta, qualcosa che lo elegge, e lo chiama a un’ampia distesa”. Così scriveva Rilke nelle “Lettere a un giovane poeta”, ed era talmente prossimo alla verità da indurre chiunque a constatare che una condizione umana senza amore è riconoscibile immediatamente per la sua finzione e superficialità, dettate o dall’impossibilità di fare emergere la propria dimensione “inferiore” o dalla paura di non poter reggere alle componenti più forti e intense della propria sfera affettiva. L’Amore chiede ed esige una pubblica esibizione, un palcoscenico che ne affermi la potenza e ne (ri)confermi l’esistenza. E la rappresentazione, commedia o tragedia che sia, si svolge attraverso numerosi atti, nel corso della vita. Troppe volte la successione delle sequenze sentimentali degli individui è affidata ad un unico “regista” che, muovendosi in un “perimetro” rassicurante, è capace di operare all’interno di percorsi narrativi già “collaudati”, attingendo ad un registro di vicende già note. A tale regista potremmo assegnare il termine generico di calcolo, ragione, buonsenso, conformismo, tutto fuorchè passione, coraggio, libertà o autenticità. Da sempre, infatti, l’uomo si sforza di omologarsi ai dettami imposti dal Collettivo, quelli più “pratici”, perché socialmente approvati, ma questo sforzo è spesso una gabbia razionale al cui interno si cela un circuito emotivo incontrollabile. Quante relazioni si fondano su un sentimento autentico, profondo, che escluda il fantasma di un’altra realtà, sognata, ma mai onestamente espressa? Quanti sono in grado di guardare in faccia la realtà falsa e inappagante della propria vita? Quanti sono in grado di affrontare il peso della menzogna, o rischiare l’impopolarità pur di vivere coraggiosamente? Le storie portate in analisi raccontano il distacco, l’indifferenza, l’impossibilità della mediazione tra l’ideale e il reale, il rifiuto della complessità, l’an-estesia, aspetti che in un modo o nell’altro trovano rappresentazione anche nel cinema. Erede del mito e della letteratura, il cinema rappresenta oggi il terreno elettivo per illustrare la complessità e l’ambiguità dell’universo psichico e consentire una loro progressiva ri-elaborazione. “Il pubblico” -osserva Abbas Kiarostami- “si siede davanti allo schermo proprio perché desidera restare bloccato sulla poltrona ma al contempo viaggiare con la mente. Altrimenti non ha senso che il pubblico entri nelle sale cinematografiche, perché questo viaggio lo può fare da solo, all’esterno del cinema. Adesso che l’abbiamo inchiodato su questa sedia, abbiamo il dovere di fargli fare questo viaggio”. Un film riuscito si fonda inevitabilmente sulla capacità di slatentizzare una dimensione interna, sulla capacità di innescare una ‘risposta estetica’, necessaria al risveglio della realtà psichica. Che si tratti delle immagini che scorrono sullo schermo cinematografico, di quelle che irrompono nel setting analitico, o della dimensione immaginale attivata da incontri “casuali” (anche se nulla accade per caso), attraverso il contatto di due modi di vivere all’insegna della verità, si creano inevitabilmente dei fenomeni straordinari. Ordinario è tutto quello che ci riconduce entro confini familiari, routinari, al riparo da imprevisti, ma la vita insegna e il cinema conferma quanto sia necessario il confronto con un maggiore dinamismo. Incontrarsi improvvisamente con un aspetto della propria personalità, grazie ad un altro individuo, essere messi fuori strada da una situazione seduttoria equivale, in fondo, ad entrare in contatto dinamico con aspetti della nostra anima che altrimenti sarebbero rimasti in ombra. Nella dimensione amorosa è attraverso la “dichiarazione” che questa esperienza straordinaria, inizialmente interna e segreta, si apre al confronto con l’altro e si fa storia. Questa apertura all’altro è sulla spinta delle emozioni, del piacere, della sessualità, dello sguardo, del gesto o del sorriso ed è in grado di disinnescare la scelta convenzionale. L’amore è il grande attivatore dell’attività immaginativa, perché grazie al potere della seduzione e dell’incontro, il “senno” viene trascinato, suo malgrado, nel flusso della vita. La seduzione è da intendersi, secondo Carotenuto, “come esperienza di essere portati fuori rotta, mentre nello stesso tempo si viene a confronto con alcuni aspetti della nostra personalità di cui non si sarebbe mai sospettata l’esistenza. ” (1)
La geniale intuizione de Il Truffacuori è quella di svelare, nella sceneggiatura, il meccanismo di seduzione che sta alla base dell’esistenza umana. L’affascinante protagonista del film, Alex Lippi (Romain Duris)  si distingue per la sua abilità di seduttore polimorfo, animato non tanto dall’irrefrenabile quanto patologico bisogno di conquista, ma dalle esigenze “professionali” di dividere coppie la cui parte femminile è significativamente rappresentata da «donne infelici, ma che non lo ammettono»; Grazie alle sue versatili doti di identificazione con il personaggio che di volta in volta incarna il bisogno latente della “preda” da ammaliare, il truffacuori riesce nel suo intento trasformativo, inducendo le ignare donne a prendere coscienza della loro misera condizione. In tutte le varianti del sentimento è facile capire come la solidità dei rapporti possa essere compromessa da motivazioni esterne. Una persona che abbia strutturato la sua vita principalmente su considerazioni di opportunità, calcolo e vantaggio, improvvisamente può essere sconvolta e disorientata da un inatteso rovesciamento di valori, da un disperante decadimento di tutto ciò che fino a un attimo prima aveva rappresentato una recinzione sicura. Lo scoprono tutte le donne che Alex riesce ad affascinare…Così il significato profondo dell’amore si inscrive nel suo movimento e nella capacità che questo stato ha di costringerci a mutare, facendoci divenire noi stessi.
La seduzione può apparire «negativa» soltanto se la esaminiamo dal punto di vista delle categorie «moralistiche», ma non se la esaminiamo in termini psicologici. Da questo punto di vista, come afferma Carotenuto, ogni seduzione rinvia a quell’imprinting iniziale dell’esistenza umana in cui il bambino, con il suo sorriso e il suo sguardo, attiva nella madre un processo seduttorio che permette di essere tenera nei suoi confronti. Questo imprinting iniziale riemerge continuamente ogni qual volta due persone si incontrano…
La seduzione di Alex non è la seduzione maligna di Dongiovanni, non è al servizio del narcisismo, perché non è malattia del possedere. Pur nella apparente “leggerezza” e ovvietà del plot, si ravvisa in fondo una legge d’amore fondata sulla dedizione, che pur profusa a seguito di lauti compensi, non mira alla proprietà dell’altro né garantisce l’appagamento del desiderio sessuale. Il truffacuori, nell’ambito della propria missione salvifica, si limita a baciare le sue “vittime” sicché l’attrarre a sé, il portare fuori, che è Io specifico della seduzione, ha come unico obiettivo rivoluzionare l’altro. Si delinea così, nel film, l’elemento trasgressivo della seduzione, intesa come il momento che permette il capovolgimento di senso, di valori, di punti di vista. In tale prospettiva, la seduzione si iscrive all’interno di un progetto che non è mai di consumo e di violenza, ma che tende a stabilire una coppia di pari, una coppia “genitale”, una dimensione relazionale adulta e autentica. Il nostro simpatico seduttore è ben diverso da chi agisce il proprio fascino in una sorta di “coazione a ripetere” un dramma antico, pregenitale, in balia del suo «demoniaco potere», segnato dalla ferita del predominio della madre, che spesso resta legata a lui sentimentalmente per tutta la vita, pregiudicando nel modo più grave il suo destino da adulto. Il narcisismo perverso, in amore, si estrinseca attraverso un possesso incompiuto ed irrecuperabile. C’è in molti seduttori l’obbedienza alla legge interiore che ci si può appartenere solo per un momento e mai del tutto, e il loro agire è condizionato da una vocazione alla fuga, da una mancanza di stabilità, da un esaurirsi della dimensione progettuale che diventa inesorabile distruzione dell’altro e di sé. Questo tipo di «seduttore» è divorato dal suo stesso demone, sedotto dalla propria dimensione femminile interna, al punto da non poter vivere concretamente il rapporto con una donna reale. Alex probabilmente è, all’inizio della storia, incapace di dialogare efficacemente con la propria Anima, con la propria controparte sessuale inconscia, come dimostrano i continui riferimenti ad una vita di relazione poco stabile o comunque di scarso spessore. L’esercizio ininterrotto delle sue funzioni professionali, che si colloca per “necessità” nella sfera degli affetti, ha tuttavia un risvolto inatteso: egli afferma di essere per certi versi un artista, e l’accostamento immediato per noi è con il mito di Pigmalione, l’artista solitario che sceglie consapevolmente di evadere da una realtà insignificante per vivere la perfezione dell’arte. Alex è un “virtuoso” della sua arte. Nel racconto ovidiano Pigmalione, indignato dalla condotta delle Propetidi, che avevano oltraggiato Afrodite prostituendosi e negando la sua divinità, aveva preferito la vita da celibe e si era ritirato in solitudine. Grazie però alla felice ispirazione del suo talento artistico, scolpì in candido avorio una figura femminile di bellezza superiore a quella di qualsiasi donna vivente. Egli trattava la statua come se fosse una donna vera, dedicandole le amorevoli cure destinate ad un’amante reale e si innamorò della sua opera… L’arte aveva superato in bellezza la realtà perché l’artista aveva creato, dando forma a un’immagine interna che l’abilità artistica aveva, naturalmente, portato all’esterno. Se rileggiamo il mito in chiave evolutiva, allora possiamo individuare nella figura di Pigmalione, come anche in quella di Alex, che forgiano entrambi donne, il percorso che porta ogni uomo a confrontarsi in solitudine con la dimensione inconscia e femminile, per poi accedere alla relazione, che viene per questo, vissuta in modo più consapevole. In questo senso, la capacità di amare scaturisce da una lenta incubazione, più che dall’eccesso di idealizzazione. D’altra parte, il frutto dell’arte di Pigmalione non deriva tanto da una precisa intenzionalità rappresentativa, ma a giudicare dalle parole di Ovidio, l’artista è incredulo rispetto a quanto ha sotto gli occhi. L’amore non nasce dal desiderio di forgiare un’immagine ideale, ma sembra  erompere per “necessità” dall’universo interiore…
Sembra che il destino d’amore di Alex scaturisca proprio dal “frutto” della sua arte: Juliette è certamente la sola donna, tra le tante incontrate per ragioni professionali, a suscitare un sentimento vero, agendo probabilmente da catalizzatore per un processo trasformativo, fino a quel momento misconosciuto. Grazie al contatto con l’algida dimensione affettiva di Juliette, Alex è costretto a confrontarsi in prima persona con la propria affettività e con le sue lacune, rendendosi conto di avere egli stesso fondato un’intera esistenza sulla finzione o sul timore. La presa di coscienza, nell’uno come nell’altra, dei propri limiti, ma anche delle proprie potenzialità espressive, porta ad un inevitabile lieto fine. Attraverso un improvviso cambiamento di rotta dall’ordinario, Alex, pur dismettendo i panni del seduttore è comunque in grado di evidenziare la sua “virilità”, la sua risolutezza, finalmente scevra da artifici e raggiri, e per questo “naturale”, perchè in grado di coesistere con gli aspetti più “femminili”, fragili e dialogici della propria Anima. Romain Duris si impone come un nuovo modello di seduzione, grazie a quello che probabilmente è destinato a divenire uno dei personaggi-simbolo della sua carriera, il truffacuori Alex, sicuramente antitetico rispetto alle varie “declinazioni” misogine derivanti dall’«archetipo» Casanova. Pascal Chaumeil, in questa vitale opera prima, apre una porta sul mondo della relazione, con un atteggiamento ironico e risolutivo, senza note pessimistiche e disperate, senza indulgere in eccessi o volgarità e puntando, più che alla “raffinatezza” della messa in scena, al valore della recitazione, sicchè il film assume i tratti meta-cinematografici di un’apologia delle capacità attoriali.
Marialuisa Vallino

Note:
1.: Aldo Carotenuto, “Eros e Pathos”, pag.50, Bompiani, Milano, 2a ed., Gennaio 1988.

THE DANISH GIRL

THE DANISH GIRL

Einar è diverso da sua moglie. Lui dipinge paesaggi illuminati dalla luce obliqua di prima estate, o velati dal pallido sole invernale. Greta  dipinge ritratti per i ricchi committenti della borghesia cittadina e lavora come illustratrice. Per completare il ritratto di una nota cantante d’opera, Greta chiede al marito di posare per lei in abiti femminili…

“Questo sarà il nostro segreto, vero Greta?» sussurrò Einar. «Non lo dirai a nessuno, vero?» Era spaventato ed eccitato al tempo stesso, e il pugno di bimbo che era il suo cuore gli pulsava in gola. «A chi dovrei dirlo?»  «Ad Anna.» «Non c’è bisogno che Anna lo sappia» disse Greta. E comunque, Anna era una cantante lirica, pensò Einar. Era abituata agli uomini che si vestivano da donna. E alle donne che si vestivano da uomo, per il cosiddetto Hosenrolle. Era l’inganno più vecchio del mondo. E sul palcoscenico dell’opera, questo non significava nulla, se non un po’ di confusione che si risolveva sempre nell’ultimo atto”. (dal romanzo “The Danish Girl” di David Ebershoff)

È la storia romanzata di Einar Wegener/Lili Elbe e di sua moglie, Gerda Gottlieb, che si svolge nell’arco di sei anni, ripresa da Tom Hooper nell’omonimo film. Nel libro di Ebershoff, Gerda diviene Greta. Sappiamo che l’artista lavorò come illustratrice per conto di Vogue, La Vie Parisienne, Rire, La Baïonnette, con una “libertà” espressiva che la rese celebre.

Lili Elbe emerge lentamente dalle opere Art Déco realizzate da sua moglie Gerda, che ne enfatizza la figura slanciata e il volto malinconico. Einar si identifica con le raffigurazioni di Lili: la tela è l’occasione per accedere alla propria identità, compressa e negata troppo a lungo. Einar posa per Gerda e lei è sedotta dalla sua “musa”, che come il fiore cui allude il nome (day-lily, la calla) sboccia, delicato e chiaro, per effetto delle sue attenzioni.

Inizio della metamorfosi

La relazione tra Einar e sua moglie si connota come una “partita a quattro”, in cui entrano in gioco non solo gli aspetti coscienti e vissuti, ma anche quelli legati alle controparti sessuali inconsce della personalità di entrambi. L’altro che seduce è colui che enuclea una dimensione interna ed è il portatore di un’ immagine inquietante ed inespressa. La seduzione si inscrive nella dimensione della mancanza. Nel film (come nella realtà), Gerda è essenzialmente incline ad agire comportamenti non convenzionali, a non identificarsi in un ruolo femminile “tipico”, e lo stesso dicasi per Einar, i cui tratti delicati e poco rispondenti ad un modello “virile”, colpiscono immediatamente. L’altro appare pertanto come cifra simbolica di una completezza agognata e non ancora possibile. Il gioco che i due coniugi intraprendono è funzionale ad un reciproco percorso di integrazione: ciascuno, in altri termini, riesce a scardinare i filtri e le resistenze psicologiche in atto, sotto il segno di una carenza e di una promessa d’essere. Ci accorgiamo che nel film di Hooper il talento di Gerda si sviluppa pienamente dal progressivo emergere di Lili, che si afferma come “necessità” espressiva ed incoraggia la transizione dal maschile al femminile.

Questa dimensione trasformativa, ancora in ombra, non investe solo l’identità di Einar, ma anche quella di sua moglie: l’irruzione dell’elemento perturbante spezza la quiete e permette ad entrambi l’assunzione del proprio destino. E’ un percorso che ripropone, per certi versi, il tema mitologico della “prigioniera liberata”: il liberatore deve riuscire ad infrangere le porte della prigione, neutralizzare forze magiche e pericolose, abbattere le barriere che rappresentano l’inibizione e l’angoscia, risvegliare la parte di sé negata. Con la liberazione della prigioniera, una parte del mondo inconscio, vissuta in precedenza come estranea ed ostile, viene assimilata. Gerda rappresenta per Einar l’apporto necessario al periglioso sentiero della conoscenza di sé, l’Anima che segna il cammino fino a Lili. Einar diventa Lili, mentre Gerda comincia a dipingere in modo nuovo e ad assumere via via una varietà di ruoli e funzioni: sposa, amante, sorella, madre di Lili, sul letto di morte, sino alla completa accettazione di un Einar destinato a scomparire. Lili emerge da Einar o forse da Gerda: è il Femminile che congiunge opposti inconciliabili e ci ricorda il legame inscindibile di morte e divenire: perchè qualcosa di nuovo possa nascere bisogna amare, e bisogna anche morire.

Marialuisa Vallino

L’uomo nero: un viaggio nel nome del padre

L’uomo nero: un viaggio nel nome del padre

Locandina

Locandina

Regia: Sergio Rubini
Sceneggiatura: Domenico Starnone, Carla Cavalluzzi, Sergio Rubini
Fotografia: Fabio Cianchetti
Montaggio: Esmeralda Calabria
Scenografia: Luca Gobbi
Costumi: Maurizio Millenotti
Musica: Nicola Piovani
Durata: 110 minuti
Italia, 2009

PERSONAGGI E INTERPRETI
Gabriele Rossetti adulto: Fabrizio Gifuni
Gabriele Rossetti bambino: Guido Giaquinto
Zio Pinuccio: Riccardo Scamarcio
Ernesto Rossetti: Sergio Rubini
Franca Rossetti: Valeria Golino
Avvocato Pezzetti: Maurizio Micheli
Professor Venusio: Vito Signorile
Donna Valeria Giordano: Anna Falchi
Anna adulta: Margherita Buy

La trama:
Gabriele Rossetti torna in un paesino della Puglia per l’estremo saluto al padre morente, Ernesto.
Le ultime parole dell’anziano genitore, permettono nel figlio l’emersione di ricordi del passato, caratterizzato da un’infanzia vissuta negli anni ‘60 con il padre, capostazione della ferrovia locale con l’ossessione per la pittura, la madre Franca, insegnante, e lo zio Pinuccio, giovane fratello di Franca.
Solo quando Gabriele, ormai adulto, passerà la notte nella casa della sua infanzia, scoprirà una verità su Ernesto che trasformerà radicalmente la propria prospettiva sulla figura paterna…
Ernesto, padre di Gabriele nonché capostazione della locale ferrovia, è inizialmente un artista mancato, ma di chiara passione, svilito, anche nelle sue prove pittoriche migliori, dall’ipocrisia e dal pregiudizio di certe “caste” culturali di paese che rivendicano la cultura come loro dominio esclusivo.
Nella caratterizzazione dei due personaggi-detrattori, l’avvocato e il professore, non è difficile cogliere i tratti collettivi di una realtà ancor viva e pulsante negli ambienti pseudo-intellettuali pugliesi, entro i confini dei quali più che un’apertura all’arte si rintraccia un bisogno di omologarsi ad una certa idea della cultura, per lo più veicolata attraverso informazioni superficiali e spersonalizzate, che rischiano di penalizzare proprio i migliori talenti.
Lo sguardo di Rubini in tal senso è impietoso, ma più che legittimo… Il film, fin dalle prime sequenze, pone l’accento sullo sguardo infantile e sulla sua posizione antinomica rispetto alla visione della realtà tipicamente adulta. Emerge in particolare la contrapposizione tra libera espressione di sé e condizionamento della vita collettiva: il piccolo Gabriele infatti persegue, seppur in condizioni di forte inquietudine, un proprio stile di vita, volto alla ricerca di un’individualità autonoma, poco incline alle regole familiari e sempre sul filo di una tendenza “antisociale”.
I compagni di gioco del piccolo Gabriele occupano e rivendicano spazi marginali rispetto alla vita sociale accreditata: spazi dove si rintraccia il caos primordiale delle origini, il ritorno alla natura, alla terra, agli istinti vitali, luoghi periferici rispetto all’identità collettiva, ufficiale, sede del conservatorismo e dell’omologazione. Emergono a tratti nel film alcuni accenni tipici di De Sica / Zavattini: l’infanzia, l’orfanotrofio, la solitudine nella folla, la solidarietà, la miseria…
L’identità di Gabriele sembra fondarsi su una difficile tendenza identificatoria nei confronti del padre, che viene essenzialmente vissuto dal figlio come un perdente, e su un’adesione automatica alle caratteristiche dello zio, che assume i tratti reali e immaginali di un eroe.
Mentre Ernesto insegue il sogno di realizzare la copia perfetta di un Cézanne, il piccolo Gabriele si allontana emotivamente dal padre per accostarsi sempre più alla figura dello zio Pinuccio, scapolo impenitente, puer aeternus, che offre se non altro una valida affettività al piccolo, mai fondata su elementi oscuri.
Franca, moglie di Ernesto, fa da inevitabile contrappunto alle ambizioni del marito, assumendo i tratti tipici di una moglie-madre saggia, votata all’oblatività, spesso in contatto con le immagini-guida dei genitori defunti.
Influenzato dalla sensibilità materna, Gabriele comincia a sviluppare una sua autonomia dalla realtà circostante, accogliendo la disposizione della genitrice al mondo immaginale.
Nell’impossibilità di conciliare gli opposti antitetici che affollano la sua vita, egli riversa nell’attività fantastica il suo malessere esistenziale, favorendo l’emersione di Mostri diurni o onirici.  Altre volte le visioni hanno un chiaro carattere compensatorio e rendono più agevole il contatto con le contraddizioni emergenti dall’ambito familiare.
Affiora, a questo proposito, una scelta registica ed una caratterizzazione dei personaggi che risente dell’influsso felliniano: L’uomo nero come Amarcord è un film giocato sul filo della memoria, dove molto spazio viene consacrato all’elemento visionario e grottesco: Il professor Venusio e suo figlio, l’avvocato Pezzetti, gli amici di famiglia, compongono una variopinta galleria di personaggi bizzarri che vengono tratteggiati col gusto parodistico del vignettista. Il capostazione Ernesto, prima che riproduttore di Cézanne è caricaturista, attività esercitata anche da Federico Fellini, prima dell’esordio da cineasta. Anche l’attività dello zio Pinuccio è accostabile ai tratti biografici di Fellini, il cui padre si occupava di commercio di generi alimentari…
La Puglia raccontata da Sergio Rubini è come la Romagna felliniana, una terra mitica e arcaica, e nel contempo, magica, perché irreale, sognata, immaginata: in un caso come nell’altro il paesaggio è punteggiato da elementi pittorici che lo personalizzano individualisticamente.
Il paese è non solo il luogo dove tornare, la terra che chiama all’origine, ma è anche e soprattutto un luogo interiore di elaborazione dei vissuti.
Tale cammino introversivo è vissuto dal Gabriele bambino come un dovere non procrastinabile, ma al tempo stesso è alienante e oppressivo e agevola l’irruzione dell’Ombra attraverso figure terrifiche, elicitate da persone appartenenti alla realtà circostante.
Chi è l’uomo nero se non la personificazione dell’Ombra di Ernesto, vissuta proiettivamente attraverso il figlio? Nella sua figura inquietante convergono inoltre elementi identitari collettivi, paurosi perché non coscientemente integrati e vissuti in forma alienata. L’uomo nero è anche la presentificazione del senso di esclusione dalla vita e quindi il fantasma della solitudine, vera prigione da cui è impossibile evadere. Non sorprende infatti la comparsa dell’oscura, indistinta figura proprio in contesti in cui al piccolo Gabriele è impedita una via di fuga…
Quanto più aumenta il divario tra mondo infantile e universo di riferimento adulto, tanto più si fa strada la necessità di adoperare la fantasia, quale elemento difensivo: La fantasia può essere considerata come un’unità psichica organizzatrice che allo stesso tempo crea un ponte e una barriera tra angoscia e pensieri, mentre introduce una funzione metaforizzante nella psiche.
Ma volendo piuttosto offrire anche una riflessione sul significato degli affetti familiari e su come, a distanza di anni e con l’introduzione di nuovi elementi, il giudizio sulle persone possa modificarsi, allora lo sguardo di Rubini si fa indulgente, recuperando gli aspetti valoriali importanti ai fini di una solida struttura identitaria.
L’infanzia “ingannata” è una Gestalt che nell’adulto esige d’essere completata: Il cambiamento in senso attivo dell’atteggiamento dell’Io porta non solo ad una modificazione della singola sequenza immaginativa, ma, a lungo andare, ad una modificazione del “fantasma” parentale e quindi ad una “riparazione” della mancanza che gli aveva dato origine. Alla fine, sia il padre che la madre di Gabriele risultano essere degli ottimi caregiver, capaci di rendere conto di se stessi in termini coerenti e di utilizzare sistemi educativi validi, almeno nel periodo in cui la storia si situa.
L’operazione di costruzione dell’identità del piccolo-grande Gabriele risulta un’operazione particolarmente riuscita, a patto di arrivare a cogliere la funzione dinamica della dimensione quasi onirica dei ricordi, soprattutto nell’ottica generale del quadro individuale che vanno a ricomporre. Tale funzione si muove all’interno di un paradigma strutturale che evidenzia anche nella trama quattro distinti momenti:
Lo stadio di privazione interviene all’inizio della storia e vede qualcuno o qualcosa sottrarre ad un personaggio ciò a cui ha diritto o gli sta particolarmente a cuore. Questa azione dà luogo ad una mancanza iniziale il cui rimedio costituirà il motivo attorno a cui ruota tutta la vicenda. Nel nostro caso la privazione riguarda tanto Ernesto quanto Gabriele: Il primo vive e muore con un sogno irrealizzato, lasciando nel figlio una traccia incompleta di sé. Il secondo, privato dell’elemento genitoriale “eroico”, è costretto a disidentificarsi dal padre per non ripercorrere il suo cammino fallimentare. Su questa duplice mancanza iniziale ruota tutto il film.
Lo stadio di allontanamento successivo assolve una funzione duplice: da un lato conferma una perdita (Ernesto si allontana sempre più dal suo sogno, Gabriele si separa dal suo luogo d’origine) mentre dall’altro dà avvio alla ricerca di una soluzione (Gabriele è messo sulla strada di un possibile rimedio).
Il viaggio, stadio essenziale dell’intera sequenza, può concretizzarsi in uno spostamento fisico, in un trasferimento, ma anche in un tragitto psicologico.
Nel nostro caso Gabriele comincia a muoversi lungo un itinerario interiore, punteggiato da una serie di tappe decisive che esitano nel ritorno, stadio finale, coincidente con la rivelazione del segreto sul padre.
Se il ritmo della narrazione è a tratti caotico e dispersivo, l’espediente risulta comunque funzionale a render conto della visione parziale e frammentaria che chiunque avrebbe della propria infanzia a distanza di trenta, quarant’anni da essa.
Quando il Gabriele-adulto richiama alla memoria la passione artistica del padre, riesce a ricomporre la figura di questi attraverso l’identificazione con la sua sofferenza, fino a quel momento rimossa dalla sfera cosciente. Il bisogno del figlio di separarsi da una realtà inaccettabile, se da un lato aveva favorito l’emersione di una personalità vincente e antitetica rispetto a quella del padre, dall’altro aveva mutilato la figura di Ernesto privandola dei suoi aspetti migliori.  Anche Paul Cézanne visse quasi ignorato dai contemporanei. Sappiamo che aveva pochi amici, diffidava dei critici e, fino al 1895, espose solo occasionalmente. Era incompreso persino dalla sua famiglia, che trovava bizzarro il suo comportamento e non capiva quanto fosse rivoluzionaria la sua arte…
Il film di Rubini lascia intravvedere la fatica della coerenza dietro l’apparente resa all’anonimia di massa. In tal senso la figura di uomo e di padre personificata da Ernesto Rossetti è quella del vero eroe che sa attendere, dipingendo la sua tela esistenziale, in attesa di un riscatto che inevitabilmente sopraggiungerà…

Marialuisa Vallino

Bright Star – da John Keats a Fanny Brawne: Bellezza-Verità, Amore-Morte.

Bright Star – da John Keats a Fanny Brawne: Bellezza-Verità, Amore-Morte.

Locandina

Locandina

Regia: Jane Campion
Sceneggiatura: Jane Campion
Prodotto da: Jan Chapman, Caroline Hewitt
Produttori esecutivi: F. Ivernel, C. McCracken, C. Langan, D. M. Thompson
Direttore della fotografia: Greig Fraser
Costumi e scenografia: Janet Patterson
Montaggio: Alexandre de Franceschi A.S.E.
Musiche: Mark Bradshaw
Durata: 119 minuti
Gran Bretagna, Australia, Francia 2009

PERSONAGGI E INTERPRETI
Fanny Brawne: Abbie Cornish
John Keats: Ben Whishaw

Mr. Brown: Paul Schneider
Mrs. Brawne: Kerry Fox
Toots: Edie Martin
Samuel: Thomas Brodie-Sangster
Maria Dilke: Claudie Blakley
Charles Dilke: Gerard Monaco
Abigail: Antonia Campbell-Hughes
Reynolds: Samuel Roukin

Non sono certo di nulla tranne che della santità degli affetti del cuore, e della verità dell’immaginazione. Quel che l’immaginazione percepisce come bellezza deve essere vero – sia o no esistito prima – poiché secondo me tutte le nostre passioni sono come l’amore: tutte, se intensamente sublimi, sono creatrici di bellezza pura. – John Keats –

Classe 1954, Jane Campion è neozelandese ed è l’unica donna ad aver vinto il festival di Cannes, con Lezioni di piano; l’anno scorso si è ripresentata sulla Croisette con Bright Star, film dedicato alla storia d’amore fra il poeta John Keats e la giovane Fanny Brawne, la fulgida stella del titolo: una storia sulla quale non mancano libri e testimonianze, ma a una sola voce, quella di Keats, che con le parole ci sapeva fare e che scrisse a Fanny lettere bellissime che lei, dopo la sua morte, conservò a lungo. Jane Campion, scrivendo il film, ha rovesciato il punto di vista e ha inventato una seconda voce che, almeno per iscritto, non ci è giunta: quella di Fanny. Il film, infatti, non è la storia di John Keats: è la storia di come Fanny Brawne si accende d’amore per John Keats e la sua poesia.
Di certo non siamo di fronte alla solita storiella romantica sulla fanciulla sognatrice infatuata del poeta: il punto di vista femminile è ciò che salva Bright Star dalla convenzione del film in costume sull’Inghilterra dell’Ottocento, un vero e proprio sottogenere che in passato ha regalato pochi lavori buoni e molti oleografici. La stessa Campion ci aveva provato nel 1996 con Ritratto di signora, ma la nobiltà della fonte letteraria (Henry James) l’aveva forse bloccata. Qui, invece, liberandosi dall’ingombro della trama, ha raccontato un tema che le è caro, il turbamento emotivo che un sapiente uso della parola scritta può suscitare nei lettori: un tema romantico, certo, ma anche reale e appassionato.
La regista neozelandese s’immerge negli ultimi tre anni della breve vita di Keats, cercando di ritagliarsi un tempo cinematografico particolare, denso di risonanze segrete, scandito dai sottili sottintesi o dai repentini slanci e illuminato dai bagliori di una felicità chiaramente impossibile. C’è tutto e il contrario di tutto, insomma, nella storia della relazione che nasce tra il ragazzo figlio dello stalliere, malato di letteratura e di tisi, e la sua musa di buona famiglia, pionieristica creatrice di moda, anticonformistica padrona dei propri sentimenti. Ma Bright Star è anche il confronto fra due creatività, perché Fanny è una stilista del suo tempo – Inghilterra, primo Ottocento – e adora inventare cappellini e vestiti. Non a caso il film si apre con un’immagine che forse solo l’occhio di una donna regista poteva concepire: il primissimo piano di un ago che penetra una stoffa bianca, e finisce con un’immagine speculare, un altro ago che cuce una stoffa nera. Fra i due aghi passano anni e irrompe la morte, perché John Keats muore a Roma, a soli 26 anni, il 23 febbraio del 1821. Fanny gli sopravvive portando per tre anni il lutto, come una vedova, pur non essendo i due sposati.
Il film può apparire a tratti freddo, ma è evidente come la Campion cerchi di schivare accuratamente il manierismo: la classe stilistica va di conseguenza rinvenuta nei dettagli, nel simbolismo ossessivo del ricamo e soprattutto degli abiti che Fanny crea e poi indossa, comunicando idealmente con i versi del poeta. Alla buona riuscita concorre, assieme all’intonata fotografia impressionistica di Greig Fraser, la scelta dei protagonisti, Abbie Cornish e Ben Whishaw, senza dimenticare Kerry Fox che nel 1990 era la sensuale Janet Frame di Un angelo alla mia tavola e ora, venti anni dopo, ha l’età giusta per interpretare la madre di Fanny. La sua presenza conferma, oggi, come in passato, un ulteriore legame emotivo tra l’universo della poesia e il cinema della regista neozelandese.
La bellezza del film sta nelle ambientazioni, in miracoloso equilibrio fra precisione storica e forza metaforica. Nella semplicità (apparente) con cui ogni impennata verso il sublime è riportata a terra da un dettaglio insieme poetico e materiale. E naturalmente nell’estrema accuratezza con cui sono tratteggiati insieme epoca e personaggi, dal primo all’ultimo. Ma la bellezza del film sta soprattutto nell’estensione archetipica e aprioristica della morte e dell’amore. Il pathos in questo ambito esprime un valore che va oltre la sfera personale, umana, e apre inaspettatamente un varco verso la profondità, verso il mondo dell’Anima, l’archetipo mercuriale della vita. Eros rappresenta pertanto solo uno dei poli che costellano la storia d’amore tra Fanny e John, ed è attivato in principio da una condizione di “verginità” psichica della giovane fanciulla, quel territorio che già il poeta aveva personalmente esplorato. L’arte di Keats è la trama su cui la Brawne può intessere il filo della propria vita interiore e quindi riconoscere in sé la verità e la bellezza dell’anima. In quest’ottica la poesia e la personalità di John Keats aprono un passaggio nella vita di Fanny Brawne, conferendo ulteriore spessore alla dimensione creativa della donna, solo apparentemente superficiale. L’ossessione per i vestiti o il ricamo esprime infatti la ricerca simbolica, da parte di Fanny, di un particolare modo di “fare anima”. L’espressione: “il mondo è il luogo, la valle, del fare-anima” viene, come è noto, da Keats, ed è stato il poeta a dire che “Bellezza è Verità”. Hillman, riprendendo Keats, ha sottolineato l’importanza di accostarsi alla realtà psichica con una sensibilità estetica più che con una comprensione cognitiva, riferendosi non all’estetica dell’ornamento, ma all’aisthesis dell’attenzione animata e immaginativa. In greco la parola kosmos esprimeva originariamente un’idea estetica e politeistica: indicava la giusta collocazione delle cose e veniva adoperata soprattutto in riferimento agli ornamenti femminili. Gli Stoici usavano kosmos per l’anima mundi.
Per la Campion, Fanny Brawne, stella del firmamento interiore di Keats, musa ispiratrice, sembra essere l’incarnazione della bellezza visibile dell’anima, un’anima che è soprattutto “anima mundi”, secondo la tradizione filosofica inaugurata da Plotino. Il poeta e i suoi versi fanno da eco al multiforme universo psichico della Brawne, rappresentato nel film attraverso la geniale intuizione visiva della camera brulicante di farfalle. Al pari dell’anima, la farfalla è al tempo stesso allegoria e simbolo della psiche e realizza delle metamorfosi, passando da una forma all’altra. La vita di Keats, soprattutto nella sua contiguità con l’amore e con la morte sembra riflettere lo stesso percorso metamorfico della realtà interiore: In una lettera all’amata Fanny, il poeta scrive:- “Ci sono due cose a cui penso con voluttà nelle mie passeggiate, la tua bellezza e l’ora della mia morte. Oh, se potessi possederti e nello stesso tempo morire! Odio il Mondo. Frusta troppo le ali della mia volontà. Berrei volentieri un dolce veleno dalle tue labbra per abbandonarlo, il mondo!” (2).
In tutte le manifestazioni della bellezza eterna il poeta trova una sorgente di dolore: nelle instabili immagini del bello, nella gioia appena posseduta, che gli sfugge. Accanto al piacere, per Keats, dimora la malinconia: Così è per chiunque senta intensamente…
Conoscersi allora significa andare oltre l’immagine del proprio volto diurno, significa attingere agli aspetti inconsci di sé, alla realtà immaginale e in questa segreta simmetria interiore ciascun amante ritrova nell’altro parte della propria essenza.
Come scrive Keats, nella sua Ode all’urna greca, “la bellezza è verità e la verità è bellezza. E’ tutto quello che sappiamo su questa terra e tutto quello che abbiamo bisogno di sapere.”

Marialuisa Vallino, Alfonso Marrese (Critico e studioso di cinema)

Note:
1. da “Lettera a Benjamin Bailey”, 22 novembre 1817, in: John Keats, “Il sogno di Adamo. Lettere scelte 1817-1820”, a cura di Anna Foch, Oscar Classici, Mondadori, 2001.
2. Shanklin, 25-07-1819, Lettera a Fanny, riportata da Elido Fazi, in “Bright star, La vita autentica di John Keats”, Fazi ed., 2010.

Dieci inverni: prologo di una storia d’amore

Dieci inverni: prologo di una storia d’amore

Locandina

Locandina

Regia: Valerio Mieli
Sceneggiatura:  Isabella Aguilar, Davide Lantieri, Valerio Mieli
Fotografia: Marco Onorato
Montaggio: Luigi Mearelli
Musiche originali: Francesco de Luca e Alessandro Forti
Scenografia: Mauro Vanzati
Durata: 99 minuti
Italia-Russia, 2009

PERSONAGGI E INTERPRETI
Camilla: Isabella Ragonese
Silvestro: Michele Riondino
Simone: Glen Blackhall
Fjodor: Sergei Zhigunov
Liuba: Liuba Zaieva
prof. Korsakov: Sergei Nikonenko
Clara: Alice Torriani
Pianista-cantante: Vinicio Capossela

Trama: Primo Inverno, anno 1999: A bordo di un vaporetto che collega le isole della laguna veneziana, Camilla nota tra la folla un ragazzo, Silvestro. I due iniziano a guardarsi: lei è timida, lui decisamente sfrontato. Quando il vaporetto attracca, lui decide di seguire la ragazza e le chiede di ospitarlo per una notte nella sua casetta sulla laguna. I due si sfiorano e si allontanano. Così comincia una parabola sentimentale lunga dieci anni…
Il film comincia con un motivo simbolico che prelude ad una sorta di “viaggio iniziatico”, un cammino individuativo, che sin dalle prime sequenze, prende origine dal mondo degli affetti. Il simbolismo della traversata da una riva all’altra è un motivo onirico-mitologico assai diffuso e allude alla necessità di passare ad uno stadio più elevato di consapevolezza. La figura di Camilla mostra in tal senso la sua funzione di “traghettatrice” nell’ambito trasformativo di Silvestro.
Durante l’incontro sul traghetto, lei reca con sé una lampada, un oggetto che permette di distinguere le cose e di orientarsi nel buio. Tradotto in termini simbolici, è lo strumento della conoscenza, analogo alla lucerna con cui Psiche illumina il volto di Eros, nella mitofiaba di Apuleio. Lui trasporta goffamente un alberello di cachi, quindi è associato ad un elemento simbolico, la pianta, che allude allo sviluppo del Sé.
La figura femminile emergente dalla folla, sembra sia funzionale all’attivazione di particolari aspetti della figura maschile: da una parte troviamo la fonte dell’illuminazione, dall’altra il bisogno di sviluppare le potenzialità inespresse. La condivisione tra i due giovani appare come una circostanza inevitabile, fondata sulla sincronicità.
La necessità dell’incontro appartiene ad uno schema interno che contiene delle leggi segrete e simmetriche. Notiamo infatti come tra i due giovani si instauri immediatamente un legame intenso, contrassegnato dai tratti di un amore potenziale. Ogni volta che un uomo e una donna entrano in contatto emergono più o meno inconsapevolmente, aspetti che orientano il rapporto nei termini di un’attrazione o al contrario di un rifiuto. Non a caso nella mitologia Eros viene  rappresentato armato di arco e frecce di opposto effetto: secondo Ovidio le frecce del dio erano due, una di piombo e l’altra d’oro: quella di piombo metteva in fuga l’amore, mentre quella d’oro lo suscitava…
Nel film il dio dell’Amore scaglia ora la freccia d’oro, ora quella di piombo, dando luogo a un’alternanza di sentimenti e situazioni antitetici.
L’oro capace di accendere la scintilla d’amore rappresenta l’intensità della passione, lo slancio entusiastico verso l’altro, un altro che sembra rappresentare, almeno apparentemente, il veicolo verso la felicità. Il piombo è il simbolo dell’individualità intatta; in qualità di metallo pesante, è tradizionalmente attribuito al dio separatore Saturno (La delimitazione) e rappresenta la base da cui può partire un’evoluzione trasformatrice.
Di solito quando due persone si amano “di colpo”, il loro amore è prevalentemente basato sulla proiezione. L’amore, secondo la prospettiva junghiana, è sempre una “partita a quattro” dove entrano in scena non solo gli aspetti coscientemente orientati della Personalità, ma anche e soprattutto le componenti eterosessuali che ciascuno reca segretamente in sé. Jung ha chiamato queste componenti archetipiche Anima e Animus.
L’Anima è essenzialmente la componente inconscia femminile presente nella personalità dell’uomo. Essa è il principio dell’Eros, quindi il suo sviluppo nell’uomo si riflette nel modo di rapportarsi alle donne.
L’Animus è la componente inconscia maschile della personalità della donna. Rappresenta il principio del Lógos e fa da ponte tra l’Io della donna e le sue risorse creative inconsce.
Dieci Inverni esplora il lato “magico” e archetipico della dimensione relazionale, il suo snodarsi attraverso una ricorsività necessaria.
Il silenzio e la fuga, codici comunicativi privilegiati tra i protagonisti rinforzano l’idea di un movimento verso l’interno.
Il fulcro del film è l’energia “alchemica” che si sviluppa dalla vicinanza di Silvestro con Camilla, e in effetti è da lei e per lei che prende avvio il percorso individuativo del ragazzo, che inizialmente non possiede alcun progetto di vita.
Il motivo della donna temibile ed enigmatica, personificata da Camilla, allude alla fascinazione dell’Anima con la sua provocante inafferrabilità, un’indefinitezza che sembra a Silvestro piena di promesse. Il personaggio di Camilla si sviluppa sulle tracce tipiche della Nouvelle Vague: si presenta inizialmente come una donna sensibile, ma distante, nei confronti della quale Silvestro si scopre e si confessa impacciato e intimorito, per poi trasformarsi nella donna determinata e infedele, capace di tradire il “sogno d’amore” con le occasioni del momento. La poliedricità della figura femminile, probabilmente fa da eco alla varietà di contenuti inconsci che il giovane deve integrare nella vita cosciente.
La ciclicità con cui i due ragazzi si avvicinano per poi allontanarsi, nell’arco temporale di dieci anni, riflette l’ambivalenza di sentimenti e l’impossibilità  di consegnarsi interamente l’uno all’altra, temi ben noti a Truffaut e Rohmer.
Ogni inverno è un quadro di ridefinizione del rapporto tra Camilla e Silvestro, un quadro in cui l’amore rimane inespresso, e tuttavia vivido al punto da condizionare inconsciamente le scelte affettive dei due. Quel che avviene al di fuori dei dieci quadri narrativi non viene mai spiegato, solo mostrato, ma è facile arguire che la corrente sotterranea che determina il naufragio delle rispettive storie d’amore sia animata da un sentimento profondo che solo il tempo potrà far emergere in superficie.
L’amore tra Silvestro e Camilla sembra obbedire a una legge di sottrazione, che negando continuamente la realizzazione piena del rapporto amoroso, aggiunge nel contempo corposità alle determinanti relazionali interne dei due protagonisti. In tal senso, la crescita del loro rapporto matura individualmente, ma stimolata dalla presenza continua dell’altro. Nel film, la casetta di Camilla è il luogo deputato a raccogliere e trasformare i frammenti di condivisione relazionale: è in essa che emergono i reciproci limiti d’accesso all’altro, le omissioni affettive, ma anche il bisogno irrefrenabile di vicinanza, a dispetto del tempo che passa.
Stare insieme non sempre è possibile, ma se le leggi interne portano due individui uno in direzione dell’altra, è inevitabile che prima o poi il rigido inverno si trasformi nella rigogliosa primavera…

Marialuisa Vallino