L’accertamento peritale in relazione all’imputabilità e pericolosità sociale

L’accertamento peritale in relazione all’imputabilità e pericolosità sociale

L’accertamento peritale in relazione all’imputabilità e pericolosità sociale in soggetti di maggiore età [1]

Secondo il Codice penale (art. 85): “E’ imputabile colui che ha la capacità di intendere e volere”, pertanto ci si riferisce alla capacità, da parte del soggetto, di rendersi conto del valore sociale degli atti compiuti. La colpevolezza costituisce il presupposto per l’applicabilità della pena.

Il Giudice può, in fase di cognizione od esecutiva, in base alla natura dei quesiti, incaricare un esperto psicologo o psichiatra ed autorizzarlo a svolgere accertamenti su un indagato, imputato o condannato.

Esempi di quesiti in ambito penale:

“Dica il perito se l’imputato, in relazione alla patologia dalla quale, stante la documentazione acquisita, è affetto, sia capace di stare in giudizio”;

“Dica il perito, utilizzando tutti gli strumenti diagnostici a sua disposizione, se l’imputato fosse capace di intendere e di volere al momento del fatto, tenuta presente la natura del reato a lui contestato” (l’imputabilità deve sussistere al momento della commissione del fatto; non importa che essa venga meno dopo, o non ci fosse in un momento antecedente [Cass. 21826/2014]);

“Dica il perito se l’imputato sia da considerarsi socialmente pericoloso ai sensi dell’art. 203 c.p., se cioè appaia probabile che nel futuro commetta fatti preveduti dalla legge come reati” (L’articolo 203 c.p. definisce il delinquente pericoloso […] la persona che, anche se non imputabile o non punibile, ha commesso taluno dei fatti indicati, ed è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati).

Il perito: il giudice nomina il perito scegliendolo tra gli iscritti in appositi albi o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina (art.221. 1. c.p.p). L’accertamento delle condizioni psichiche del periziando, se da un lato deve fornire indicazioni precise su facoltà quali (ad es.) la comprensione degli eventi processuali, dall’altro deve essere “ricollocato” in una dimensione temporale ben precisa, il momento del fatto, e la personalità deve essere valutata non solo nell’hic et nunc, ma anche in relazione a comportamenti messi in atto in passato e ad altre manifestazioni che abbiano un valore predittivo. Diagnosi categoriale” e “funzionale” sono due aspetti complementari ma distinti che non debbono essere confusi l’uno con l’altro o riassorbiti l’uno nell’altro. Occorre precisare che in termini psicopatologici o criminologici il comportamento umano viene comunemente identificato come conforme, difforme, deviante, delinquenziale, patologico ed analizzato secondo i sistemi nosografici categoriali più accreditati. Il comportamento di un individuo, in termini strettamente psicologici, è espressione del suo funzionamento in un preciso contesto esistenziale e in un determinato periodo della sua storia individuale, ma è anche rivelazione del suo “stile di vita”, unitario e coerente con aspetti strutturali, organizzativi e funzionali del suo “essere nel mondo”. L’insieme di sintomi e di segni presentati dal soggetto (e annotati dall’osservatore) sono i mezzi, gli strumenti, le strategie che il soggetto traduce in comportamenti e attraverso i quali manifesta il suo stile di vita, il suo funzionamento. L’infermità (da in-firmus = non-fermo) in senso psicopatologico-forense non individua un “disturbo mentale”, ma i riflessi di questo sul funzionamento psichico del soggetto e quindi sul suo comportamento. L’accertamento peritale di un individuo deve necessariamente avvenire attraverso la raccolta di dati anamnestici, l’analisi del comportamento verbale e non verbale, l’esame delle varie funzioni e il loro impatto sulla realtà esterna, e non può quindi essere effettuato solo sulla presenza/assenza di determinati sintomi. A tale proposito, occorre puntualizzare che sul piano psicodinamico un sintomo ha non solo una sua ‘peculiarità’, ma è da considerarsi l’espressione simbolica di una particolare costellazione interna che, in quanto ‘personale’, può rendere adattiva/disadattiva la risposta dell’individuo alle richieste provenienti dall’ambiente esterno. “Individuo”, etimologicamente, presuppone la capacità di essere in-diviso, ma paradossalmente la ricerca di unità e autenticità individuale si scontra con la pressione verso l’omologazione, l’identità collettiva. Ecco allora il disagio, il disadattamento, la “malattia”, l’incapacità talvolta manifestata nel definire se stessi in relazione alla realtà esterna. Intendere e volere, seppur da ritenersi come capacità disgiunte, diventano i due parametri che permettono di a) comprendere in che modo e misura esista una differenziazione tra sé e non sé, nonché b) di cogliere il valore adattivo e flessibile delle azioni. Al termine “normale” è preferibile quello di “funzionale”; per quel che attiene all’ambito criminologico, gli esperti si trovano a dover formulare giudizi in merito alla presenza o meno di un disturbo che possa aver provocato in un autore di reato un comportamento criminoso, o sulla eventualità che lo stesso individuo possa compiere in futuro gesti pericolosi.

La capacità di intendere: 

E’ l’attitudine del soggetto a conoscere la realtà esterna, ciò che si svolge intorno a lui e di cogliere il valore sociale positivo o negativo dei suoi atti; essa presuppone l’idoneità psichica di comprendere o discernere le proprie azioni od omissioni ed i motivi della propria condotta.

La capacità di volere: 

E’ l’attitudine del soggetto a determinarsi in modo autonomo, a scegliere tra i motivi coscienti in vista di uno scopo, a comportarsi coerentemente con tale scelta (maturata al vaglio dei poteri di critica e di giudizio), resistere agli stimoli d’avvenimenti esterni ovvero capacità di auto-inibirsi. In estrema sintesi, la persona deve essere valutata in relazione alla sua sfera cognitiva, affettiva e volitiva.

L’accertamento dell’imputabilità avviene generalmente in un tempo significativamente posteriore al momento del fatto reato. Si fa divieto di uno studio psicologico sulle caratteristiche di un individuo “sano” ovvero sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche (c.d. “divieto di perizia”, art. 220 c.p.).

Si riportano di seguito i criteri valutativi comunemente utilizzati per l’accertamento delle capacità su menzionate e di solito indagate in ambito penale:

Secondo Roesch, Zapf e Hart (2010) la competenza a stare in giudizio può essere definita come la capacità dell’imputato di comprendere i procedimenti legali a suo carico e di essere pertanto in grado di assistere e partecipare alla sua difesa.

Elementi per la valutazione della capacità di stare in giudizio:

  • Comprensione del procedimento giudiziario per i reati contestati,
  • comprensione della portata antigiuridica ed etica dei reati di cui il soggetto è imputato,
  • possibilità di rispondere a domande, di colloquiare e di collaborare alla propria difesa,
  • assenza di deterioramento mentale e/o deficit mnesici (di natura organica),
  • assenza di un’infermità mentale che infici le “potenzialità” difensive,
  • assenza di disturbi somatici che possano compromettere le capacità mentali,
  • esame di realtà non compromesso (la presenza dell’esame di realtà è necessaria alla volontà e pianificazione del passaggio all’atto),
  • capacità di critica e giudizio non deficitarie.

Elementi per la valutazione della Pericolosità Sociale (rientra in due momenti diversi del procedimento penale: nella fase di cognizione ed in quella esecutiva)

  • Diagnosi: carattere cronico o acuto del disturbo e sua espressività,
  • destrutturazione della personalità,
  • eloquio e comportamento disorganizzati,
  • correlazione tra disturbo e comportamenti criminosi,
  • progressione nelle condotte auto ed etero-distruttive,
  • caratteristiche dell’ambiente familiare e sociale.

(Elementi di) Predittività: 

  • Progressione/remissione delle condotte antisociali,
  • “compliance” (alta/bassa) ai protocolli di cura,
  • possibilità/impossibilità di effettuare terapie farmacologiche ed usufruire di cure specialistiche, di supporto socio-assistenziale,
  • fattori “ambientali”, quali ad es. il contesto deviante,
  • presenza/frequenza/assenza di comportamenti aggressivi e/o reati pregressi,
  • presenza/assenza di episodi recenti o pregressi di violenza,
  • presenza/assenza di uso/abuso di sostanze,
  • presenza/assenza di danni neurologici.

Tra i Fattori Predittivi di Violenza rientrano:

  • Idee di violenza (soprattutto desideri di aggressività, sentimenti di avversione nei confronti di una persona specifica),
  • osservazione del comportamento del periziando durante il colloquio (soprattutto: crescendo progressivo dell’attività psicomotoria; aggressività verbale, turpiloquio, disconoscimento dell’autorità dell’operatore),
  • scarso controllo pulsionale.

Secondo Ugo Fornari “un giudizio di pericolosità sociale psichiatrica può basarsi: 1) sulla presenza di una sintomatologia psicotica molto florida e riccamente partecipativa a livello emotivo, con assoluta assenza di consapevolezza di malattia; 2) oppure sull’accertamento di un grave deterioramento o una grave destrutturazione psicotica della personalità, con o senza pluriricoveri o plurirecidive; 3) notizia di uno o più scompensi comportamentali ravvicinati, sia in senso ‘auto’ che ‘etero’ distruttivi; 4) progressione di gravità nelle condotte di scompenso; 5) scarsa o nulla risposta alle terapie praticate, purché adeguate e purché non si tratti di simulatore; 6) necessità di protezione del malato e della società dagli acting-out che i disturbi psicotici hanno indotto e probabilmente, se non certamente, indurranno” [2].

Il problema della pericolosità sociale in termini psicopatologici è cosa diversa se la si mette in relazione con un reato che contempli la presenza di agiti aggressivi (eterolesivi) di una certa entità o con un reato dove tali agiti non siano affatto presenti o dove il mancato controllo pulsionale non costituisca la “causa” prevalente del fatto-reato. La pericolosità sociale prevista dall’art. 203 c.p., per esempio, non riguarda espressamente la probabilità che il soggetto possa mettere in pericolo la vita altrui, ma concerne la probabilità che egli possa nuovamente commettere un fatto-reato. Per persona socialmente pericolosa può intendersi una persona che può mettere in pericolo i valori della convivenza sociale. La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133 – Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena-. Periti e consulenti devono aver ben presente che una cosa è la nozione di pericolosità sociale psicologica/psichiatrica e cosa ben diversa è la pericolosità sociale giuridica, il cui accertamento, nella sua dimensione prognostica, deve rimanere compito di esclusiva spettanza del magistrato. Dopo queste osservazioni, occorre puntualizzare che non esiste una correlazione univoca tra diagnosi e vizio di mente (incapacità). L’infermità giuridicamente rilevante è costituita dalla confluenza di un disturbo funzionale che interagisce con un disturbo mentale, al punto di compromettere in concreto la capacità di autodeterminazione del soggetto, incidendo in maniera rilevante sulle funzioni autonome dell’Io (il “quid novi” o “quid pluris”) e conferendo in tal modo “significato di infermità” all’atto agito o subito (lo stesso ragionamento psicopatologico forense vale infatti anche per la vittima di reato). Il problema che si pone preliminarmente ai fini dell’individuazione della (in)capacità di intendere e di volere non è tanto quello di un corretto inquadramento diagnostico nosografico, ma quello ben più complesso di “funzionamento mentale” e di chiara connessione di questo con il reato. Il rischio di recidiva deve fondarsi sulla persistenza di condizioni personali e sociali agevolanti la criminogenesi. Alcune condizioni psichiche o organiche riducono ma non escludono la capacità di intendere e di volere. E’ cosa differente se il fatto (ad es.) viene commesso in stato di cronica intossicazione da alcool e/o stupefacenti o se l’alterazione psichica indotta dall’assunzione di dette sostanze è preordinata al fine di commettere un reato. Si tratta di un’ ipotesi di actio libera in causa, stato di incapacità preordinata, riconducibile ad un precedente atto di volontà del soggetto, che non fa venir meno la colpevolezza. Relativamente alle dimensioni diagnostiche, con sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005, depositata l’8 marzo 2005, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno stabilito quanto segue: “anche i disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli articoli 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa; per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre “anomalie caratteriali” e gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo”. Pertanto, in base alla sentenza, un disturbo della personalità, se produce una condotta incontrollabile ed ingestibile, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo sui propri atti, di indirizzarli di conseguenza, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autodeterminarsi liberamente ed autonomamente. Per tale accertamento, il giudice deve procedere avvalendosi del contributo di un esperto e di ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali. Come osserva Fornari, anche in presenza di un disturbo di personalità grave, se la genesi (progettazione) e la dinamica (esecuzione) del comportamento criminale indicano che -nello svolgimento complessivo e nel resoconto retrospettivo dello stesso- l’autore ha conservato e conserva, sostanzialmente indenni le aree funzionali dell’Io deputate alla comprensione del significato del suo atto e delle conseguenze dello stesso (funzioni percettive, organizzative, previsionali, decisionali ed esecutive), non si può concludere nel senso dell’esistenza di un vizio di mente. I disturbi di personalità di cui si parla nella citata sentenza devono quindi essere severi al punto da determinare una situazione di assetto psichico “incontrollabile” tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi. Indipendentemente dalla precisazione diagnostica, tanto più grave è la compromissione psichica, meno strutturate le difese, più diffusa l’identità e compromesso l’esame di realtà (c.d. scivolamenti psicotici), tanto più incoordinato e non pianificato sarà il passaggio all’atto, sia nelle premesse, sia nel suo estrinsecarsi, sia nella condotta immediatamente successiva. Il “valore di malattia” o il “significato di infermità” (in connessione al reato) possono ricondursi alla presenza/assenza dei seguenti indicatori:

  • Presenza di fattori stressanti che precedono lo scompenso;
  • frattura rispetto allo stile di vita abituale;
  • evidente sproporzione della reazione;
  • compromissione dello stato di coscienza e presenza di dismnesia;
  • disturbi della percezione;
  • idee deliranti non organizzate;
  • gravi turbe dell’affettività e del tono timico;
  • comportamento disorganizzato.

Il comportamento disorganizzato, in particolare, rientra tra i sintomi identificativi dell’incapacità di intendere e di volere, oltre a costituire un fattore predittivo, insieme alla presenza di agiti aggressivi, della pericolosità sociale in relazione a fatti reati che contemplino un pericolo per la vita altrui.

Aspetti metodologici:

L’esperienza clinica sottolinea di continuo l’impossibilità di riferire con certezza dei quadri sintomatici ad una diagnosi precisa, se non a seguito di ripetuti incontri, perché è la durata dei sintomi che può meglio orientare la diagnosi. Quando occorre valutare certificazioni, senza voler assolutamente dubitare dell’indiscussa competenza professionale di altri, che costituirebbe una violazione dei principi deontologici, alcune note discordanti in ambito diagnostico-terapeutico possono semplicemente essere interpretate come sovrapponibilità di quadri, perché non sempre è possibile far rientrare un quadro sintomatico nei sistemi nosografico-descrittivi. In molti casi, non è possibile effettuare con certezza una diagnosi se il comportamento del soggetto in esame non viene riconosciuto nei termini di una modalità stabile di funzionamento o di una condizione acuta. Laddove si renda necessario individuare nel dettaglio il funzionamento cognitivo, ideativo e affettivo di un individuo, solo la comparazione dei dati di vari test può orientare l’esaminatore nella formulazione del giudizio diagnostico. Preme sottolineare che la psicodiagnostica testistica richiede una lunga formazione e non necessariamente rientra tra le competenze specialistiche dei professionisti delle cure (psicologi o psichiatri o psicoterapeuti). Inoltre, è prassi consolidata che in determinati ambiti la valutazione psicometrica spetti a figura diversa dal perito o consulente (anche se esperto in psicodiagnostica), al fine di garantire allo stesso un’autonomia decisionale nell’analisi generale dei dati. I risultati emersi dai test devono essere equiparati, preferibilmente in fase conclusiva, ad altri indici diagnostici, desunti dai colloqui, proprio per individuare la presenza di concordanze o eventuali discordanze. L’esperto incaricato può avvalersi delle risultanze ai test di livello, di personalità; frequente, in ambito valutativo, per l’accertamento della pericolosità sociale, il ricorso al test PCL-R-Hare Psychopathy Checklist Revised (valutazione della psicopatia), e al HCR-20 V3-Assessing Risk of Violence, per indagare il rischio di recidiva di un crimine violento. Nella formulazione dei suoi giudizi, il perito deve tentare di ricondurre i dati emersi verso un quadro descrittivo del funzionamento mentale/comportamentale del periziando in vista della risposta ai quesiti posti.

Marialuisa Vallino

Richiesta di consulenza


[1] L’imputabilità del minore è subordinata ad un criterio cronologico: fino a quattordici anni il minore non è mai imputabile, perché nei suoi confronti è prevista una presunzione assoluta di incapacità (art. 97 c.p.); fra i quattordici e i diciotto anni il minore è imputabile solo se il giudice ha accertato che al momento del fatto aveva la capacità di intendere e di volere (art. 98 c.p.). Nello specifico, l’art. 98 c.p., stabilisce che «è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva la capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita». Il Tribunale per i Minorenni competente per territorio dovrà quindi accertare se il minore sia imputabile sotto il profilo del raggiungimento dei quattordici anni e sotto quello della capacità di intendere e volere.

[2] UGO FORNARI, “Compendio di psichiatria forense” UTET, Torino 1989.

Counseling interdisciplinare alle persone e alla famiglia

Counseling interdisciplinare alle persone e alla famiglia

      Servizi:

  1. Consulenza legale e psicologica nella crisi di coppia, con interventi mirati ad identificare e gestire, in modo funzionale, le difficoltà riguardanti il singolo o il nucleo familiare;
  2. Interventi a sostegno della genitorialità;
  3. Percorsi di rielaborazione emotiva ed assistenza legale alle vittime di violenza;
  4. Consulenza ai componenti delle famiglie ricostituite e/o alla famiglia allargata, in relazione a difficoltà affettive ed educative;
  5. Assistenza giudiziale e stragiudiziale all’individuo e alla famiglia: separazione, divorzio, filiazione naturale e legittima, adozione, disconoscimento e riconoscimento di paternità, tutela, curatela ed amministrazione di sostegno per situazioni d’incapacità naturale o permanente (interdizione, inabilitazione), istanze al Giudice Tutelare, successioni;
  6. Supporto civile e penale per i reati di maltrattamento, atti sessuali e persecutori (stalking), minaccia, lesioni, omicidio.

Richiedi consulenza

 

La CTU psicologica nei procedimenti giudiziari per separazione e divorzio: funzioni e profili etico-deontologici

La CTU psicologica nei procedimenti giudiziari per separazione e divorzio: funzioni e profili etico-deontologici

La CTU psicologica nei procedimenti giudiziari per separazione e divorzio: funzioni e profili etico-deontologici. 

“Honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere” (iuris praecepta di Ulpiano)

La Psicologia giuridica: gli ambiti applicativi

La Psicologia giuridica ha da tempo definito una propria identità sociale, rientrando “a pieno titolo” fra le varie discipline operanti nel sistema giudiziario. Il suo ambito include i vari settori della Psicologia (clinica, sociale, di comunità, dello sviluppo, delle relazioni familiari) e le «discipline di confine», come la Sociologia, l’Antropologia, la Criminologia. Uno Psicologo giuridico svolge la propria attività professionale, non solo nel rispetto del Codice deontologico degli Psicologi, ma conformandosi a specifiche linee guida condivise dagli esperti del settore ( Carta di Noto, 1996, aggiornamenti 2002 e 2011; Linee guida deontologiche per lo Psicologo Forense, a cura dell’Associazione Italiana Psicologia Giuridica, Torino, 1999 ). Nel suo lavoro, per il quale sono necessarie, oltre ad una formazione psicoterapeutica, anche conoscenze approfondite delle leggi e delle procedure vigenti nel contesto legale e giudiziario, lo Psicologo giuridico analizza l’interazione tra persona e sistema della giustizia amministrativa, civile, penale, minorile ed ecclesiastica, focalizzandosi sui processi psicologici di rilievo giuridico. Le applicazioni della Psicologia clinica al contesto giudiziario costituiscono pertanto un ausilio sia per l’emissione di sentenze sia per tutelare interessi di parte. Le attività prevalenti del CTU e del Perito riguardano le attività conoscitive, orientate ad accertare quanto richiesto nei quesiti posti dal Magistrato. Ci si riferisce all’assessment e alla diagnosi psicologica, alla valutazione della pericolosità sociale, dell’imputabilità e responsabilità penale, alla valutazione dei minori e del contesto familiare in casi di pregiudizio, all’assessment di minori autori di reato, alla valutazione dei minori e delle capacità genitoriali in casi di affidamento per separazione o divorzio. Altro campo di intervento è la valutazione e quantificazione del danno psichico ed esistenziale. Agli esperti in Criminologia spettano attività quali il c.d. profiling, vale a dire il procedimento di ricostruzione di aspetti specifici desunti dall’osservazione della scena criminis, relativi alla tipologia dell’ipotetico soggetto autore di un delitto, attività indispensabile nei crimini “inesplicabili”.

La valutazione dei minori e delle capacità genitoriali in casi di affidamento per separazione o divorzio.

La legge n. 54/2006 ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano il principio della bigenitorialità. All’interno di questa cornice normativa, il Consulente Tecnico d’Ufficio viene nominato per valutare le capacità genitoriali potenziali e concrete in relazione agli specifici bisogni della prole. Attraverso i quesiti posti al CTU, il Giudice può ricevere, non solo un quadro preciso dei rapporti tra il minore e ciascuno dei genitori e delle caratteristiche di personalità di questi ultimi, ma anche delle indicazioni in merito alle migliori modalità di esercizio delle funzioni genitoriali. Nel caso specifico delle separazioni e dei divorzi, la valutazione dell’esperto verte sull’idoneità genitoriale, riguardante non solo la capacità di erogare cure materiali ed affettive, ma anche la capacità di ciascun genitore di anteporre ai propri bisogni quelli della prole. La capacità di cooperazione tra i due genitori, il rispetto reciproco, sono fattori protettivi per un figlio, mentre la presenza di comportamenti strumentali, atteggiamenti di squalifica impediscono la corretta gestione della co-genitorialità. In questo caso, il Consulente deve definire le condizioni di vita di un minore e segnalare l’eventuale presenza di condotte genitoriali inadeguate.

Esempi di quesiti:

1)Formuli il CTU sommarie valutazioni in merito alle condizioni di benessere psicofisico del figlio, al rapporto con le figure genitoriali,  ciò anche ai fini del collocamento più appropriato e della definizione del regime delle visite.

2)Verifichi il CTU: l’idoneità genitoriale delle parti, lo stato di benessere della prole.

3)Dica il CTU se il regime dell’affidamento condiviso, come concretamente attualmente in corso, sia rispondente all’interesse del  minore e se ed in che modo possa o debba essere modificato al medesimo fine, anche tenendo conto delle condizioni di vita e lavorative attuali di entrambi i genitori.

4)Dica il CTU quale sia lo stato di benessere psicofisico della prole e se vi sia idoneità genitoriale delle parti, chiarendo eventuali problematiche relazionali tra la prole e ciascuna delle due figure genitoriali, con ulteriore precisazione se dette difficoltà o problematiche siano frutto di autonoma maturazione ovvero di giustificata reazione a condotte inadeguate del genitore o dipendenti da interferenze, ingerenze o manipolazioni dell’altro genitore.

5)Accerti il Consulente le migliori condizioni dell’affidamento e segnatamente se sussistano o meno situazioni di pregiudizio per i minori, che consigliano la deroga alla regola generale dell’affido condiviso, con indicazione della migliore frequentazione dei minori con il genitore in ipotesi non affidatario o comunque non collocatario.

La metodologia peritale (nei casi indicati) deve rilevare ed integrare elementi di valutazione provenienti sia dai singoli soggetti sia dalle relazioni intercorrenti tra di loro. E’ compito del Consulente Psicologo (chiamato ad esprimersi su incarico del Tribunale) esaminare il modo in cui i genitori comunicano (o non comunicano) tra di loro, se esista o no la gestione congiunta della genitorialità, se sussistano condizioni di pregiudizio per il figlio o i figli. La comparazione di dati acquisiti durante l’intero iter valutativo, potrà inoltre chiarire se i “bisogni” espressi dai due genitori e le conseguenti “aspettative” nei confronti dell’accertamento peritale siano (o no) rispondenti all’interesse prioritario del figlio o dei figli. Un’indagine sui comportamenti, sui vissuti, su ciò che è latente o manifesto, assume significato differente se finalizzata ad accertare una “oggettività” psicologica o, al contrario, giuridica. Sul piano strettamente psicologico, il CTU, coerentemente con le funzioni connesse al suo ruolo, deve osservare, comprendere, valutare, definire quanto previsto nei quesiti peritali, e solo sulla base delle sue specifiche competenze.

L’ascolto del minore, in caso di separazione tra i suoi genitori, non è una testimonianza, e ascoltare un minore non significa rilevare il suo parere rispetto alle questioni sulle quali confliggono i genitori, bensì dare valore alla sua individualità. Un figlio “conteso”, se coinvolto in maniera adeguata a prender parte alle decisioni che lo riguardano, è anche in grado di adattarsi a nuove configurazioni familiari, di accedere ad una più profonda consapevolezza dei suoi bisogni, dei suoi sentimenti e delle sue preferenze. Occorre definire i bisogni del figlio in rapporto a ciascun genitore e valutare la sua capacità di riconoscersi in quanto essere dotato di una precisa individualità. Pertanto, esprimersi sull’assetto emotivo di un individuo, la cui personalità sia ancora in divenire, significa anche comprendere se l’identità persegua una logica individuale o non sia piuttosto il risultato di costellazioni genitoriali ‘patogene’ che impediscono cioè la realizzazione di un Sé sufficientemente autonomo. Durante gli incontri con un minore, il Consulente Tecnico d’Ufficio dovrebbe favorire il più possibile l’emersione di contenuti autentici, stabilire un contatto empatico, dialogico, ed individuare in che modo e misura siano eventualmente presenti indicatori psicologici riferibili a condizioni di rischio evolutivo. Negli incontri individuali è utile adoperare tecniche di facilitazione, così come è indicato il ricorso a test grafo-proiettivi, pur considerando che essi presentano limitazioni e carenze sul piano psicometrico. Doveroso precisare che l’utilizzo dei test si integra in una procedura di assessment complessa e articolata, includente lo svolgimento di colloqui, le osservazioni ambientali, la visura degli atti e quant’altro ritenuto utile, purché autorizzato dal Giudice. Generalmente, le aree da indagare riguardano lo sviluppo psichico ed evolutivo, la dimensione affettiva e relazionale, i meccanismi difensivi, le competenze cognitive, l’esame di realtà, sempre in riferimento all’età cronologica. Nei procedimenti giudiziari per separazione e divorzio, secondo quanto generalmente previsto dai quesiti peritali, occorre definire quali siano le caratteristiche della situazione esaminata e riordinare i dati emersi per fornire al Giudice elementi conoscitivi inerenti il collocamento e/o il regime di visite più opportuni per un figlio, in considerazione dei suoi reali bisogni. L’esame è da intendersi non solo come strumento d’informazione delle dinamiche relazionali in atto, ma come attenzione ai comportamenti che possono ledere la salute psichica e fisica dei figli (i più giovani in particolare), in relazione alle loro caratteristiche di personalità, di storia e contesto di vita. Il CTU ha il compito di segnalare ogni condizione che possa porre il minore in stato di pregiudizio e/o di pericolo. Nelle situazioni di grave contrasto genitoriale occorre massima prudenza nel trattare le dichiarazioni rese dal minore. In tal senso, l’acquisizione da parte dei genitori di quanto emerso durante i colloqui, anche per il tramite dei loro Consulenti di Parte, potrebbe diventare rischioso per il bambino, qualora sottoposto ad un conflitto di lealtà, da parte di uno o di entrambi i genitori. Per quel che riguarda la raccolta di informazioni provenienti dai minori, è opportuno non utilizzare domande suggestive o ripetute, tenendo anche presente il livello cognitivo e la vulnerabilità individuale alle informazioni esterne. Se è vero che in taluni casi i bambini presentano capacità mnestiche piuttosto limitate, occorre una attenta valutazione del minore per poter affermare o escludere che un genitore ne possa influenzare il ricordo e/o la narrazione. Alcuni studi hanno evidenziato, ad es., che persino i bambini di tre anni possono ricordare accuratamente eventi personali significativi, incluse situazioni che li coinvolgono come vittime (Jones e Krugman, 1986) [1]. I bambini molto piccoli possono ricordare esperienze passate anche per un lungo periodo di tempo, in particolare se hanno già una conoscenza dell’evento, la cui durata di esposizione aumenta la possibilità di percezione e dunque di codifica [2]. In ogni caso, è opportuno prender nota di tutte le affermazioni rese dai minori, per poter seguire il percorso ideativo sotteso alla narrazione, nonchè rilevare la presenza di contraddizioni; ciò riguarda sia tematiche connesse alle attività scolastiche, ludiche, sia quelle che riguardano la qualità del rapporto con i genitori, anche in vista del collocamento, punto imprescindibile di alcune valutazioni.

Per quanto riguarda l’indagine personologica sui genitori, un test basato sull’auto-descrizione è essenzialmente una stima di come il soggetto si percepisce; in alcuni casi, può innescare una reazione difensiva nell’esaminando, con conseguenze in termini di validità dei risultati, pertanto la valutazione testistica è un accertamento complementare in consulenza tecnica, le cui risultanze devono essere sempre contestualizzate e comparate con altri dati. Nell’utilizzo dei test proiettivi occorre integrare, con adeguata competenza, gli elementi statistici (standardizzati) con elementi interpretativi. Se da un lato è importante evidenziare se sia presente o no psicopatologia psichiatrica, tale da compromettere il funzionamento e l’equilibrio adattivo di ciascun genitore sul piano cognitivo, affettivo, sociale, è altrettanto importante esaminare i tratti personologici in rapporto alla percezione e comprensione delle esigenze e dei bisogni affettivi dei figli, sicchè può risultare utile il ricorso a questionari per la valutazione delle abilità parentali, come pure l’utilizzo di prove congiunte, come ad esempio il Disegno Congiunto della Famiglia e il Lousanne Trilogue Play clinico, coinvolgenti la coppia genitoriale ed il figlio. Anche se è necessario e raccomandato osservare la relazione intercorrente tra le parti, in casi di aperto conflitto, la valutazione congiunta dei genitori rischia di esasperare le dinamiche già in atto, non essendo il setting peritale uno spazio terapeutico; in caso di violenza di coppia e domestica, non è possibile prevedere colloqui congiunti né prove di valutazione che si rifanno all’espletamento di compiti congiunti. Spesso, nelle consulenze tecniche d’ufficio, quando emerge il problema della violenza domestica, i professionisti tendono ad ignorarlo, o minimizzarlo, atteggiamenti che possono derivare dalla scarsa conoscenza del fenomeno. Il CTU, dopo aver precisato la metodologia d’indagine e il quadro teorico di riferimento, secondo una corretta ed indicata prassi, deve esaminare e descrivere quanto rilevato durante le indagini, riportando le riflessioni teorico-cliniche a sostegno del proprio parere conclusivo in risposta ai quesiti. Il compito del CTP consiste nell’adoperarsi affinché il consulente del giudice utilizzi metodologie corrette ed esprima giudizi scientificamente fondati. Tanto il Consulente d’Ufficio quanto il Consulente di Parte sono tenuti ad osservare le norme che regolano i rapporti tra colleghi (tecnici), che nei rapporti con i magistrati, gli avvocati e le parti sono tenuti a mantenere la propria autonomia scientifica e professionale (come previsto dalle LINEE GUIDA DEONTOLOGICHE PER LO PSICOLOGO FORENSE). Lo psicologo forense esprime valutazioni e giudizi professionali solo se fondati sulla conoscenza professionale diretta ovvero su documentazione adeguata ed attendibile. Il CTU, inoltre, rende sempre espliciti al minore gli scopi del suo intervento e si adopera affinché ogni incontro avvenga in tempi, modi e luoghi tali da assicurare la serenità del minore e la spontaneità della comunicazione. I colloqui tanto col minore quanto con i genitori tengono conto che essi sono già stati sottoposti allo stress che ha causato la vertenza giudiziaria. L’attività peritale esita in un elaborato che viene acquisito dal Giudice e dalle persone autorizzate per legge. Opportuno ricordare che i suoi contenuti riguardano dati “particolari”, personali, elementi psicodiagnostici, per giunta riguardanti dei minori, e il cui utilizzo impone sempre una certa cautela. Il CTP nel presentare le proprie osservazioni sul lavoro svolto dal CTU, deve fondare le proprie osservazioni soltanto su argomentazioni valide e su quanto direttamente osservato, evitando ogni riferimento critico alla persona e lesivo dell’altrui dignità professionale. E’ inoltre sconveniente sovrapporre al ruolo di psicoterapeuta quello di CTP (del cliente o parte in causa) come pure esprimere una valutazione specialistica sullo stato psichico di una persona, facendo proprie le “notizie” trasmesse dal proprio cliente. Il contesto peritale prevede la partecipazione di soggetti con ruoli e compiti ben delineati, quali appunto il Consulente d’Ufficio e i Consulenti di Parte, che devono prestare attenzione ad ogni aspetto comunicativo o metacomunicativo, parti essenziali nell’indagine conoscitiva, sia in ambito clinico che psicologico/giuridico. È opportuno che i diversi Consulenti si incontrino agli inizi del lavoro valutativo, per accordarsi sulla metodologia e precisare in che modo intendano svolgerlo, avanzando le rispettive richieste e concordando i tempi e i modi delle varie operazioni; è consigliabile videoregistrare tutti gli incontri consulenziali. Soprattutto, è da ritenersi buona prassi videoregistrare gli incontri effettuati alla presenza dei minori. I CCTT d’ufficio e di parte, nell’ambito di una reciproca relazione professionale deontologicamente corretta, devono considerare l’interesse del minore come “bene superiore”. Gli accertamenti riguardanti un minore, anche in rapporto a ciascun genitore, per la loro “particolarità”, richiedono un’attenta disamina degli aspetti verbali e non verbali, degli indicatori di contesto. L’indagine conoscitiva deve prevedere valutazioni “ambientali”, presso il domicilio di ciascun genitore, oltre all’estensione dei colloqui ad altri adulti significativi nella vita del minore, con particolare attenzione rivolta alle dinamiche interattive, all’espressione di particolari vissuti. Risulta utile, in taluni casi, l’acquisizione di informazioni di natura psicologica presso operatori a contatto con i minori o i genitori. Un’ulteriore considerazione riguarda coloro i quali, senza il possesso di competenze specialistiche, esprimono pareri tecnici (persino di natura nosografica) totalmente estranei al proprio ambito d’intervento e/o con modalità debordanti dal corretto esercizio del diritto di difesa. Il comportamento di un individuo, in termini strettamente psicologici, è espressione del suo funzionamento in un preciso contesto esistenziale e in un determinato periodo della sua storia individuale, ma è anche rivelazione del suo “stile di vita”, unitario e coerente con aspetti strutturali, organizzativi e funzionali del suo “essere nel mondo”. L’insieme di segni presentati dal soggetto (e annotati dall’osservatore) sono i mezzi, gli strumenti, le strategie che il soggetto traduce in comportamenti e attraverso i quali manifesta il suo funzionamento. Tutto quello che viene agito al cospetto del CTU o dei CCTTPP (se nominati) assume particolare rilievo, configurandosi, in tal senso, come acquisizione diretta di elementi che andranno a comporre il quadro descrittivo da esporre al Giudice. Poiché il Consulente ha il compito di fornire al giudice i chiarimenti tecnici che questi ritenga opportuno chiedergli, la sua attività di assistenza è circoscritta alle sole questioni la cui soluzione richiede particolari conoscenze tecniche, ma non può estendersi fino all’interpretazione di prove documentali, allo scopo di esprimere un giudizio che è riservato al giudice; la ricostruzione delle verità fattuali ai fini processuali non è competenza del CTU. L’esperienza peritale troppo spesso evidenzia che i bisogni dei minori vengono disattesi e tale realtà può richiedere modifiche in ordine all’affido/collocamento contrastanti con le “aspettative” e i “desideri” degli adulti che, se bloccati in un meccanismo disfunzionale, preferiscono osteggiare quanto evidenziato dalla consulenza svolta piuttosto che aprirsi a dinamiche trasformative. Tutto questo si inserisce in uno “schema” identitario e di relazione che non riconosce l’alterità. Una “visione autocentrata del mondo” presuppone la sola esistenza dei propri desideri, e in tale scenario l’ALTRO “scompare”, nella misura in cui non ha il diritto di esprimere se stesso. Come da risultanze peritali, è spesso presente -a tutti i livelli d’interazione- un’incapacità a gestire la propria autenticità in rapporto a ciascuno dei membri del nucleo familiare, la cui influenza disgregatrice continua a manifestarsi anche in seguito alla separazione, sicché il figlio, come il partner, viene relegato ad un ruolo marginale. Dalla negazione di ogni possibile differenza e alterità, come dice Lévinas, risiede l’origine del senso del male, in quanto sopraffazione, egoismo, violenza. La discriminazione accusatoria verso chi osa comportarsi, pensare, esprimersi in modo differente da se stessi è un atteggiamento fondato su una visione unilaterale dei rapporti umani, che finiscono per ricevere il peso delle proprie smisurate ambizioni compensative. E quanto si proietta all’esterno, spesso non è altro che la voce inascoltata, profonda, di se stessi.

Marialuisa Vallino

Articolo citato da Maria La Placa in: “La valutazione del minore in ipotesi di alienazione parentale”, Associazione Italiana di Psicologia Giuridica, Corso di Formazione in Psicologia Giuridica e Psicopatologia Forense, Teoria e Tecnica della Perizia e della Consulenza Tecnica in ambito Civile e Penale, adulti e minorile, 2018.

Note:

[1] JONES, D., KRUGMAN, K. (1986) Can a three-year-old child bear witness to her sexual assault and attempted murder?, Child Abuse and Neglect, 10, 253-258.

[2] BADDELEY, A., MICHAEL, W., EYSENCK, M.W., ANDERSON, M.C. (2009), Memory, Psychology Press, United Kingdom.

 

L’audizione del minore

L’audizione del minore

L’audizione del minore

Relazione di Marialuisa Vallino, presentata in occasione del Convegno: “Conflitto coniugale e condivisione genitoriale: apparenza di una contraddizione” svoltosi a Bari il 23 Marzo 2007, e nell’ambito del Corso E.C.M. per Avvocati, svoltosi presso il Tribunale di Napoli il 14 Aprile 2008. A fronte dell’evoluzione di alcuni concetti diagnostici ed operativi sono state apportate delle modifiche.

Il tema che mi è stato assegnato è sicuramente complesso ma interessante, perché a fronte di un testo normativo composto unicamente da cinque articoli, passati al vaglio del Senato il 24 gennaio 2006, il legislatore ha rivoluzionato il diritto di famiglia, suscitando opinioni fortemente contrastanti e dando vita ad interrogativi ai quali è necessario dare risposta. La condivisione genitoriale, infatti, vede gli operatori del settore impegnati nell’affrontare problematiche che, pur affioranti nel mondo del diritto, coinvolgono principi etici, sociali e culturali riguardo la posizione del minore all’interno della famiglia e della società in cui vive. Nella presente relazione vengono affrontate alcune tematiche che definiscono la “grandezza e i limiti” della c.d. bigenitorialità, delineando i fattori emotivi che legano la conflittualità familiare al contesto giudiziario. Lungo e difficile è stato il percorso di emancipazione del minore da oggetto di protezione all’interno della famiglia a soggetto di diritti; altrettanto arduo è stato il cammino, intrapreso da alcuni psicanalisti, soprattutto di matrice junghiana, che ha portato a rivalutare il ruolo del padre. Nel 2000 sono stati affidati esclusivamente alla madre l’86,7% dei minorenni a seguito di una separazione e l’86% a seguito di un divorzio. L’innovazione maggiormente evidente della Legge 54/2006 è quella di aver richiamato l’opinione pubblica al rispetto di un’eguaglianza sostanziale tra i genitori, e ciò anche in quel contesto “incerto” nel quale la conflittualità e le tensioni agiscono come spinte divergenti, pregiudicando la posizione dei minori che ne sono coinvolti. Il messaggio sotteso è che soltanto il rispetto di una totale par condicio nei confronti del figlio possa salvaguardare il diritto del minore di mantenere, nel caso di separazione/divorzio tra i genitori, il miglior rapporto possibile con ciascuno di essi (oltre che con i parenti di entrambi i rami). Qualcuno osserverà che si tratta di un enunciato del tutto ovvio; a mio parere, invece, si tratta di un principio che è stato giusto ribadire proprio perché troppe volte disatteso dalle parti in conflitto. Inoltre, il nuovo scenario si dimostra non soltanto rispondente all’evoluzione del nostro tessuto sociale, ma si allinea altresì con la normativa europea che già da tempo aveva indicato che l’autorità parentale debba continuare ad essere esercitata dal padre e dalla madre anche dopo la separazione e che ciascuno dei genitori debba assumere l’impegno di coltivare le relazioni personali del minore con l’altro genitore anche in separazione. Con riferimento specifico all’affido condiviso, possiamo quindi dire che i genitori vengono richiamati al loro compito di continuare ad essere, malgrado la fine della loro convivenza, “genitori insieme”. Come e cosa fare perché ciò accada? Il compito spetta ancora una volta al Giudice che dovrà valutare la situazione, allo scopo di emanare i provvedimenti che siano maggiormente rispondenti all’interesse del minore, fermo restando, tuttavia, che l’affidamento “condiviso” deve ormai ritenersi la soluzione prescelta dal legislatore come regola generale, e dunque prioritaria rispetto all’affidamento monogenitoriale. Non solo, ma come abbiamo avuto occasione di sperimentare nei Tribunali, il genitore che si oppone all’affidamento condiviso deve fornire elementi validi con l’esito sicuramente di essere sottoposto unitamente al coniuge e al figlio ad una consulenza tecnica d’ufficio. La concezione implicita della legge offre una “visione ottimistica” della separazione, di genitori in grado di prendere decisioni razionali, soprattutto nei casi in cui la ferita del legame coniugale è ancora aperta e il grado di conflittualità è ancora alto. È un po’ illusorio pensare che diventi all’improvviso capace di farlo chi non ha saputo decidere prima della separazione. I figli necessitano non solo di cure materiali, (anche se questo è il punto da cui scaturiscono le più potenti rivendicazioni), ma di pilastri identitari solidi e autentici. Non ha molto senso favorire nei figli un rapporto “equilibrato e continuativo” con entrambi i genitori, se quei genitori non sono prima in grado di testimoniare a se stessi il proprio equilibrio e la propria autenticità. Appare carente, infine, il ricorso alla mediazione familiare, se non si chiariscono con esattezza le modalità della sua attuazione. L’affido condiviso può funzionare solo se scelto e voluto da entrambi i genitori. Per evitare al minore un trauma è importante che durante la separazione i coniugi riescano a differenziare i problemi legati alla conflittualità della coppia da quelli relativi al proprio ruolo di genitori responsabili. Soprattutto è da evitare di mettere “in cattiva luce” l’altro coniuge agli occhi dei figli che hanno il diritto di mantenere un legame valido con entrambi i genitori. L’importante è che il divorzio e la separazione non coincidano mai con la fine dell’impegno parentale, perché si rimane comunque ancora genitori dei figli che sono stati generati insieme e, per dirla con Anna Oliverio Ferraris, “dai figli non si divorzia”. L’esperienza clinica dimostra che le coppie conflittuali rischiano di smarrirsi in un labirinto di odio e rivendicazioni per decine di anni se non per tutta la vita. La tanto vagheggiata conquista dell’indipendenza, la liberazione dall’altro, si connotano spesso nei termini di una sotterranea, quanto inconsapevole pretesa di liberarsi dei propri disagi psichici. Tale pretesa assume sovente le forme di un meccanismo disfunzionale, una “gabbia” affettiva e relazionale in cui gli ex coniugi rimangono prigionieri e che impedisce loro di ritrovare l’apertura psicologica per mentalizzare il passato e il presente, conferendo senso alla fine del matrimonio. La mancata elaborazione del “lutto” conseguente alla fine di un legame affettivo può esitare in quello che viene definito un abbraccio mortale (Main T., 1966) che impedisce il ripristino naturale delle condizioni di fiducia ed entusiasmo necessarie per prospettare una vita sentimentale futura. Una volta distrutta la fusionalità dell’eros, i coniugi restano uniti, paradossalmente, nella fusionalità dell’odio. Assurdamente, l’intervento della giustizia può essere utilizzato dagli ex coniugi per mettere in atto, in forma legalizzata, una serie di violenze e ritorsioni reciproche, vanificando quindi l’intendimento risanante, non solo della legge sull’affidamento condiviso, ma anche delle altre leggi finalizzate alla limitazione delle violenze familiari. A tale proposito, risulta particolarmente utile ricordare i cosiddetti “abusi emotivi”, subiti dai minori, e che secondo alcuni studiosi si compendiano in alcune Sindromi da separazione genitoriale. Nel 1995, il dott. Ira Daniel Turkat descriveva la ‘Malicious Mother Syndrome’; la “Sindrome della madre malevola”, secondo la sua teorizzazione, si riscontrerebbe in alcune madri affidatarie e consisterebbe in un’anomalia del comportamento comprendente: la manipolazione psicologica dei figli utilizzati come arma contro il padre; la vessazione del partner attraverso accuse gravi e infondate, come quelle di presunte violenze a carattere sessuale; la disponibilità ad andare contro la legge o sfruttarne ogni piega pur di danneggiare il proprio ex. L’alterazione della condotta può comprendere veri e propri gesti criminali, oppure può trasformarsi in un eccesso di azioni legali con cui impedire all’altro genitore l’accesso ai figli. L’uso strumentale dei figli, da parte dei genitori, è, in molti casi, un’evidenza concreta, e non necessariamente connessa al genere. Tuttavia, occorre una prudente valutazione, in caso di sospetta violenza, perchè la sua sottostima o minimizzazione può comportare rischi di vittimizzazione secondaria e l’uso inappropriato di costrutti scientifici.
Nel 1985, Richard Gardner, psichiatra infantile e forense, membro del Dipartimento di Psichiatria Infantile della Columbia University di New York, coniò il termine “Parental Alienation Syndrome” (PAS) – tradotto in italiano da alcuni autori (Buzzi, 1997; Gulotta, 1998) col termine “Sindrome di Alienazione Genitoriale” – per designare il disturbo psicopatologico dei soggetti in età evolutiva, frequentemente in età compresa tra i 7 e i 14/15 anni, che costituirebbe la “risposta distintiva” del sistema familiare sottoposto al trauma della separazione. Secondo alcuni autori tale risposta sarebbe addirittura una conseguenza paradossale del contesto giudiziario nel trattare la conflittualità familiare, tanto da definire la PAS una patologia iurigena (Salluzzo, 2004).
La PAS, secondo la sua teorizzazione, sarebbe connessa a due fattori concomitanti. Il primo è la “programmazione” o “indottrinamento” di un genitore – che è afflitto da odio patologico – ai danni dell’altro, comportamento definito come “alienante”. Il secondo fattore, che costituisce la principale manifestazione della PAS, è l’allineamento col genitore più amato (il genitore programmante che fa il cosiddetto “lavaggio del cervello” o che induce la PAS) da parte dei figli, i quali si dimostrano personalmente coinvolti in una campagna di denigrazione – che non ha giustificazione né è sostenuta da elementi realistici – nei confronti dell’altro genitore, che viene “odiato” (il genitore alienato, denigrato, la vittima, o il bersaglio). La finalità è quella di escluderlo dalla loro vita. Naturalmente, è fondamentale il ruolo svolto anche da tutti coloro, familiari e non, che si schierano dalla parte del genitore alienante. Il genitore alienante (Gardner, 2002) invece di contestare ai figli l’assurdità delle loro affermazioni, ne “condivide” i sentimenti e ne accetta le ripetute esibizioni di maleducazione e diffamazione. Ne risulta un atteggiamento adultomorfico dei figli, che li fa sentire come se si fossero rapidamente elevati a rango di valorosi adulti. La PAS, rilevata fin dagli anni ottanta nella realtà statunitense, è stata individuata come disturbo dell’età evolutiva, ma oggi viene messa in discussione dalla comunità scientifica e dalla Suprema Corte di Cassazione. E’ opportuno occuparsi della c.d. alienazione genitoriale per 2 ragioni: la prima è che la sua evidenza si colloca in maniera privilegiata proprio nella fascia d’età per la quale è previsto l’ascolto del minore, e la seconda è che essa si situa all’interno di un altro grosso problema, definito “acting out giudiziario”, vale a dire la più o meno consapevole tendenza dei genitori ad utilizzare il sistema giudiziario in modo perverso, come palcoscenico dove rappresentare il loro disagio, nella illusoria speranza di una riparazione delle proprie sofferenze e ferite narcisistiche. In riferimento alla teorizzazione della PAS, non si tratta di una patologia da indagare clinicamente, ma di una serie di condotte rilevanti per emarginare e neutralizzare l’altra figura genitoriale. La locuzione “alienazione parentale” non è esplicitamente riportata nel DSM-5, tuttavia nel manuale si fa riferimento ad “atti non accidentali verbali o simbolici di un genitore o caregiver che causano, o hanno la ragionevole probabilità di causare, un significativo danno psicologico al bambino”. Credo che la complessità del fenomeno “danno psicologico” debba essere inquadrata come grave fattore di rischio evolutivo per il minore, a prescindere dal riconoscimento o meno di una sindrome specifica. Per non cadere in trappole terminologiche che rimandano a precise “sindromi”, forse sarebbe più opportuno limitare il campo di osservazione a quei comportamenti di “influenzamento”, non necessariamente “volontari” suscettibili di incidere sul rapporto di un figlio con le figure genitoriali. Va comunque precisato che i bambini hanno una loro percezione delle dinamiche intrafamiliari non sempre e necessariamente soggetta ad intrusioni/condizionamenti. Ciò vale, in particolare, nei casi di violenza assistita, laddove la ricerca di maggior vicinanza con il genitore maltrattato è una reazione attesa, nonchè dettata dal bisogno di salvaguardare/proteggere la figura genitoriale percepita come più debole. Fatta questa premessa, che deve indurre necessariamente gli operatori a differenziare i termini violenza e conflitto, l’esperienza peritale insegna che un disagio di coppia, non affrontato in modo opportuno, può essere riversato all’esterno, sulla prole: un conflitto di coppia dovrebbe ricevere rielaborazione nelle sedi opportune, anche al fine di limitare manovre di triangolazione. Che lo si voglia riconoscere o no il peso della conflittualità ricade inesorabilmente anche sui figli e questo è particolarmente vero se questi ultimi diventano oggetto di una transazione, più che destinatari di un’affettività sana e rispondente alle loro reali necessità. I parenti e gli amici, in questi casi, possono diventare facilmente istigatori del conflitto, e solo in casi rari, promotori di attività dialogiche o autoriflessive. Sembra sia estremamente difficile, nei casi di conflittualità familiare, rimanere neutrali ed evitare il peggio, anche per i professionisti e per coloro che svolgono ruoli istituzionali. Molti corrono il rischio di farsi suggestionare, schierandosi a favore dell’una o dell’altra “fazione”. Gli avvocati lavorano in un ambito tipicamente basato sul conflitto, e pertanto inadatto a risolvere le difficoltà delle famiglie in crisi (Waldron, Joanis, 1996). Nei contesti separativi, non sempre i difensori riescono a riconoscere la distorsione delle dichiarazioni dei loro clienti, e possono a volte ‘aderire’ inconsciamente ai loro atteggiamenti, finendo anche per negare l’evidenza di comportamenti “critici”.
Naturalmente, il mandato dell’avvocato non è quello di evidenziare una realtà psicologica, bensì quello di delineare una verità processuale tale da far prevalere, all’interno della contesa giudiziaria, gli interessi del proprio assistito.
In conseguenza di ciò, le versioni di parte hanno spesso un tasso di distorsione così elevato, che alcuni autori parlano di “fattoidi” (de Cataldo, 1997) per designare quanto riferito da chi è sottoposto a interrogatori o perizie in ambito giudiziale. Occorre tenere bene a mente che ciascuno cerca una strategia per sopravvivere, e quello che fa è in relazione a questa strategia, di conseguenza è opportuno operare una distinzione tra sè e gli altri, delineando i confini interpersonali. Tanto vale anche per i Consulenti. Non dobbiamo dimenticare che nell’ascoltare e registrare determinati eventi si tende troppo spesso a lasciarsi condizionare, ad allearsi con quegli aspetti dell’interlocutore che toccano più da vicino i propri vissuti. Non è un caso che molte professioni derivino proprio dal bisogno di accostarsi a una serie di problematiche personali, vivendole attraverso i propri assistiti, pazienti, nel tentativo di superarle (Carotenuto). Un’oggettività è resa possibile solo dalla precisa delimitazione di un io e di un tu e dal rispetto e riconoscimento dell’identità quanto dell’alterità. Fatte queste premesse, entriamo nel vivo dell’audizione del minore, intesa nella duplice forma di ascolto diretto da parte del giudice e indiretto, eseguito da un CTU e trasmesso al giudice attraverso una relazione scritta. Occorre puntualizzare che l’ascolto di cui parliamo è sostenuto da una motivazione a comprendere e valutare l’hic et nunc dell’assetto emotivo del minore e delle dinamiche relazionali che lo riguardano, oltre naturalmente a renderlo protagonista della propria vita, piuttosto che oggetto di una transazione tra i genitori. L’ascolto è da intendersi in quest’ultimo caso, non solo come strumento d’informazione delle dinamiche familiari in atto, ma come affermazione del bisogno fondamentale di un minore di riconoscersi in quanto essere distinto dai propri genitori. L’audizione in questo caso ha un valore simbolico, perché come Westley e Epstein hanno affermato: “Ad una persona deve essere permesso di considerarsi separata dagli altri e di sperimentarsi tale, al fine di raggiungere l’identità”. I giudici minorili in generale si mostrano più favorevoli a procedere all’ascolto diretto, anche in considerazione della presenza dei componenti non togati, giudici onorari, dotati di specifiche competenze in campo psicologico, mentre con maggiore frequenza i giudici ordinari ricorrono all’ascolto indiretto, eseguito dai CTU. Personalmente, ritengo che una forma d’ascolto non debba escludere l’altra e che ciascuna possa fornire elementi aggiuntivi, in quanto fondata su esperienze e competenze diverse.

Art. 336-bis. Codice Civile
Ascolto del minore. 

Il minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento è ascoltato dal presidente del tribunale o dal giudice delegato nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano. Se l’ascolto è in contrasto con l’interesse del minore, o manifestamente superfluo, il giudice non procede all’adempimento dandone atto con provvedimento motivato. L’ascolto è condotto dal giudice, anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari. I genitori, anche quando parti processuali del procedimento, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se già nominato, ed il pubblico ministero, sono ammessi a partecipare all’ascolto se autorizzati dal giudice, al quale possono proporre argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’adempimento.

Modalità dell’ascolto, Proposte:

A) ASCOLTO DIRETTO: l’ascolto diretto può essere particolarmente efficace per l’individuazione delle domande da porre successivamente al CTU. Al fine di consentire una più spontanea audizione del minore sarebbe opportuno raccogliere preventivamente il consenso delle parti e degli avvocati a non partecipare all’audizione, e a prendere visione successivamente dei temi ed argomenti trattati dal giudice, attraverso il verbale, fermo restando la proposta di tematiche da approfondire. Una comunicazione libera, non condizionata da argomenti preventivamente sottoposti al giudice dai difensori, può ridurre il rischio di un’induzione di una o dell’altra figura genitoriale. Nel caso in cui il giudice si avvalga di un ausiliare, questi dopo un esame delle questioni che si desumono dagli atti, può coadiuvare il giudice nell’indirizzare il colloquio secondo modalità mutuate dal lavoro clinico con i bambini. I contenuti dell’audizione dovrebbero essere di volta in volta adattati all’età del minore, tenendo presente che esistono ampie discordanze sul problema della capacità di discernimento e su che cosa debba con essa intendersi. Personalmente ritengo che la scelta dei 12 anni derivi dalla teorizzazione piagetiana della crescita cognitiva, coincidendo con lo stadio operatorio formale, durante il quale gli individui imparano a pensare in termini astratti. Non più legati alla verifica concreta nel mondo esterno delle proprie idee, essi possono sottometterle a una verifica interna con mezzi logici. Discernimento indica la facoltà di apprendere e giudicare, etimologicamente ‘discernere’ indica vagliare e separare. Se riconduciamo tali facoltà ai minori, riconosciamo immediatamente che l’evoluzione cognitiva non è sufficiente a garantire il raggiungimento di una maturità emotiva e che questa è condizionata in modo prevalente dallo stile di funzionamento familiare. Nell’ascolto diretto, sin dalla fase presidenziale, sarebbe utile indagare non tanto con quale genitore il minore preferirebbe vivere, quanto piuttosto lo svolgimento delle attività scolastiche, le relazioni con gli insegnanti e i compagni, le modalità ludiche, e solo verso la fine cercare di comprendere in che modo e misura i genitori partecipino alla  crescita, formazione ed educazione della prole, indagando specifiche aree, prima della crisi/separazione ed eventualmente dopo di essa. La raccolta di informazioni dovrebbe avvenire secondo una modalità “ad imbuto”, cioè partendo dalle domande pensate allo scopo di ottenere un racconto libero degli eventi, per arrivare a quelle che richiedono risposte più specifiche. Di seguito alcuni esempi:

– Il soggetto dormiva-dorme da solo? con i fratelli? con i genitori?
– Reazioni dei genitori (o uno solo di essi) se il sogg. si svegliava- si sveglia di notte piangendo
– Al sogg. venivano-vengono dati dei castighi? Da chi?
– Il sogg. aveva-ha una stanza per sé?
– Il sogg. giocava-gioca da solo?
– Chi accompagnava-accompagna il sogg. a scuola o all’asilo?
– A chi il sogg. ricorreva-ricorre abitualmente in caso di bisogno e perché?
– Descrizione da parte del soggetto della propria madre, attraverso l’utilizzo di semplici aggettivi
– Descrizione da parte del soggetto del proprio padre, attraverso l’utilizzo di semplici aggettivi.

B) ASCOLTO INDIRETTO: il ruolo del CTU è essenzialmente valutativo e la metodologia utilizzata in ambito peritale deriva dalla formazione da questi acquisita, nonché dal riferimento a Linee guida e Protocolli in materia. Generalmente, i quesiti posti al consulente dal giudice riguardano valutazioni diagnostiche sulla personalità dei soggetti interessati, per lo più i genitori, indagini approfondite sulle relazioni intercorrenti tra il minore e i genitori ed i parenti di entrambi i rami genitoriali. Di grande frequenza è poi la richiesta, da parte del giudice, di individuare la soluzione di affido più rispondente all’interesse e al benessere psico-fisico del minore e quali siano le proposte e i suggerimenti in ordine alle concrete modalità di collocamento. Un quesito che abbia per oggetto una proposta o un suggerimento rende il ruolo del CTU più dinamico, non limitandolo alla sola competenza psicodiagnostica. Le indicazioni emerse dall’espletata consulenza possono in molti casi costituire un progetto di affidamento da verificare e monitorare, più che una dettagliata elencazione di sintomi/criticità. Occorre a questo riguardo puntualizzare che in alcuni casi, tra cui quello specifico del tema dell’affidamento condiviso, la somministrazione di alcuni inventari di personalità o di test proiettivi è non solo discrezionale, ma in molti casi superflua o inapplicabile ai fini dei quesiti posti. Quando si abbia la necessità di indagare lo stile di attaccamento di un minore o scandagliare il sistema di vita familiare può essere utile, oltre al colloquio, il ricorso ai test proiettivi grafici, seguiti da un’inchiesta più libera di quella prevista nei vari manuali di psicodiagnostica, e comunque sempre da adattarsi alle capacità cognitive ed espressive del soggetto in esame. Lo studio dell’interazione triadica (LTPc-Disegno congiunto) permette, ad esempio, di ricavare informazioni sull’alleanza familiare ed altre dinamiche. In altri casi, soprattutto con i bambini più piccoli, può essere utile ricorrere a una tecnica mutuata dalla psicoterapia infantile di matrice junghiana (SAND PLAY THERAPY) che prevede l’allestimento di una sabbiera e la manipolazione di piccoli oggetti che il bambino può muovere a piacimento, inventando un numero infinito di storie e proiettando in esse i suoi vissuti più autentici.
Personalmente, durante le consulenze, fermo restando il ricorso alle prove testistiche, tendo ad approfondire l’indagine anamnestica, a prestare attenzione alle contraddizioni tra Comunicazione verbale e Comunicazione non verbale, tentando di cogliere anche gli aspetti “sommersi”, non coscienti dei soggetti in esame. Qualunque sia la tecnica d’indagine e la metodologia prescelta, il ricorso ai test dovrebbe sempre essere accompagnato da un’attenta lettura delle dinamiche relazionali dei soggetti in esame, sempre contestualizzando le osservazioni scaturite dall’indagine peritale. Come indicato nelle “Linee guida deontologiche per lo psicologo forense”, questi presenta all’avente diritto i risultati del suo lavoro, rendendo esplicito il quadro teorico di riferimento e le tecniche utilizzate (art. 1 C.N.), così da permettere un’effettiva valutazione e critica relativamente all’interpretazione dei risultati. Egli, se è richiesto, discute con il giudice i suggerimenti indicati e le possibili modalità attuative (…) Nell’espletamento delle sue funzioni lo psicologo forense utilizza metodologie scientificamente affidabili (art. 5 C.D.; art. 1 C.N.). Nei processi per la custodia dei figli la tecnica peritale è improntata quanto più possibile al rilevamento di elementi provenienti sia dai soggetti stessi sia dall’osservazione dell’interazione dei soggetti tra di loro.

Marialuisa Vallino

Crisi della famiglia e disgregazione dei ruoli

Crisi della famiglia e disgregazione dei ruoli

Crisi della famiglia e disgregazione dei ruoli.

 di Valeria Montaruli [1]

Paolo Caliari detto il Veronese (attr), “Ritratto di Famiglia”,1558. Palace of legion of honor, San Francisco.

Paolo Caliari detto il Veronese (attr), “Ritratto di Famiglia”,1558.
Palace of legion of honor, San Francisco.

 

1. L’allentamento dei vincoli di parentela della famiglia. La nascita della famiglia nucleare.

L’antropologia strutturale di Levi Strauss ha individuato i percorsi attraverso cui, nelle civiltà dell’uomo, le strutture di parentela determinano la nascita delle famiglie. In particolare, perché ci sia una famiglia, occorre che altre due rinuncino o donino un membro ciascuna, modificando così le relazioni tra coloro che hanno vincoli di sangue ed instaurando nuovi vincoli sociali e legali. Attraverso l’incrocio di questi vincoli, per costituirne di nuovi, si individuano un sistema di filiazione ovvero di appartenenza alle generazioni e un sistema di relazione tra persone. Determinanti sono in questa strutturazione i legami di appartenenza al sesso, attraverso cui si formano le linee di parentela più frequentemente in senso patrilineare, e meno frequentemente secondo una filiazione matrimoniale, dando così una regolamentazione agli scambi e alle reciprocità, ai diritti e ai doveri. A tal proposito, quanto alle strutture di genere ovvero alle posizioni che i due sessi occupano entro la parentela, le donne sono collocate al centro degli scambi e dunque assumono un importante compito di comunicazione e mediazione tra i gruppi, tra famiglie e linee di parentela, che si svolgono attraverso il matrimonio. Comunque, il collante delle appartenenze familiari tende ad essere garantito per il tramite delle donne nei rapporti tra donne (madri, figlie, sorelle) anche nell’ambito della parentela. Invero, da tutte le ricerche sociologiche, emerge la prevalenza del ruolo femminile nell’attivazione e nel mantenimento della rete parentale, sia con riferimento al flusso degli aiuti, che alla corrente degli affetti. Non è un caso che le grandi riunioni familiari avvengano a casa delle figure femminili di riferimento (madri, nonne). Anche gli uomini esprimono la propria affettività e continuità familiare nel legame con la madre. Ne consegue lo sviluppo di una divisione di ruoli che assegna alle donne compiti domestici di cura nell’ambito della rete familiare. Secondo l’interpretazione sociologica più accreditata di Parsons e di Bales, mentre la famiglia nel passato aveva origine nella parentela o in un patto tra parentele, essa se ne sarebbe progressivamente svincolata, sino a giungere all’epoca contemporanea, in cui essa sembra trarre origine da due individui. Nella concezione odierna, la parentela sembra nascere da questo legame piuttosto che preesistergli. Così come l’industrializzazione è stata ritenuta la causa principale del diffondersi del gruppo domestico nucleare, essa ha comportato, secondo Parsons, anche il depotenziamento della parentela. Nella società contemporanea occidentale, a partire dagli anni ‘40 e ‘50, in cui si impongono trionfalisticamente i principi della democrazia, della scienza e della tecnologia, i legami di parentela vengono visti come un fattore frenante e disfunzionale, in quanto non favorirebbero l’autonomia individuale e le scelte di tipo particolaristico. Nei gruppi socialmente e professionalmente più evoluti, la maggiore tendenza al particolarismo è accentuata dall’accresciuto rilievo dell’affettività, come caratteristica specifica dei legami familiari, sia di convivenza che di parentela, man mano che questi vanno perdendo la loro funzione sociale. Il modello di famiglia contemporaneo è dunque connotato dal principio dell’individualismo, ispirato ai criteri dell’autonomia e della parità tra i sessi, almeno sotto il profilo formale. Tali caratteri hanno come conseguenza la strutturazione in modo diversificato dei nuclei familiari, comunque dotati di parità e di riconoscimento giuridico, con attribuzione di ampia capacità di autoregolamentazione alla coppia. Ne consegue che, accanto alle famiglie tradizionali fondate sulla gerarchia di status, vi sono famiglie nucleari, famiglie estese, famiglie monogenitoriali, famiglie ricomposte, che impongono una regolamentazione giuridica che a volte, essendo al principio, è di imperfetta realizzazione, sicché anche la contrattualità della relazione di coppia resta altrettanto imperfettamente realizzata [2]. In verità, la forma organizzativa della famiglia nucleare coniugale, nell’ambito di una società industrializzata e democratica, esprimeva il rapporto di interdipendenza tra particolarismo familiare e universalismo del libero cittadino, al centro di tutti gli scambi sociali. In tal modo, la libera circolazione e mobilità degli individui si affermava attraverso la supremazia del capofamiglia maschio, sia nei rapporti con l’altro sesso sia nei rapporti tra le generazioni [3]. Invero, il divenire maschi adulti comporta potenzialmente un conflitto tra le generazioni e, all’interno dello stesso gruppo generazionale, tra i fratelli. Tale potenzialità conflittuale potrà essere composta soltanto attraverso la formazione di un’altra famiglia, che stabilisca con quella di origine legami di affetto, evitando dipendenze economiche e sociali. Tale considerazione vale, a maggior ragione, per la parentela più larga, definita non più da vincoli di scambio e di controllo, ma dalla sola affettività. Dunque si rafforza, nei rapporti tra le generazioni, lo scambio affettivo, piuttosto che il legame fondato sul controllo della trasmissione patrimoniale o sulla doverosità dell’obbedienza e del rispetto. 

2. Le trasformazioni del matrimonio e della coppia. La nascita del mito dell’amore romantico come principio disgregatore.

Dai citati studi svolti in materia di sociologia della famiglia da Saraceno e Naldini, emerge che il matrimonio ha avuto molteplici funzioni sociali, di aggregazione tra culture e gruppi di appartenenza, di legittimazione della filiazione, di controllo della sessualità e delle alleanze tra individui. Le suddette finalità di regolamentazione sociale hanno definito i rapporti e le competenze tra i sessi, nonché la stessa identità di genere. Si è già visto come, nell’impostazione dell’antropologia strutturale di Levi Strauss, il matrimonio aveva soprattutto una funzione di scambio tra i gruppi sociali, che si realizzava attraverso la circolazione delle donne. Tale scambio tra gruppi diversi veniva peraltro garantito attraverso il tabù dell’incesto, che consentiva la costruzione, oltre che di legami di parentela, anche di una vera e propria società umana. Il matrimonio veniva dunque utilizzato come strumento di strategie di alleanza, entro le quali la coppia aveva una posizione strumentale rispetto alle relazioni tra i gruppi e le famiglie. In questo scenario, il matrimonio e la ripartizione dei ruoli tra i sessi assumono una rilevanza centrale nell’attribuzione ai singoli di una collocazione all’interno della struttura sociale di genere. Attraverso il matrimonio, inoltre, data la mancanza di certezza biologica della paternità, la stessa viene ancorata a criteri legali, sicché si svolge il controllo sociale e giuridico della fecondità della donna. La stessa parola latina matrimonium fa riferimento a questo mutamento di status della donna, che assume la condizione di madre. Tanto evidenzia la finalità generativa normalmente attribuita al matrimonio. In effetti, in molte culture, il medesimo non era compiuto fino a quando la donna non generava, e la stessa in caso di sterilità poteva essere ripudiata. Anche nell’ambito del diritto canonico, come del diritto civile, l’infertilità, sia come impotentia coeundi che generandi, costituisce un vizio genetico del vincolo matrimoniale. Nella storia nella cultura europea, a partire dal dodicesimo secolo, la Chiesa, attraverso la costruzione di diritto canonico del matrimonio come fondato sull’integrità del consenso tra i coniugi, esercita di fatto un controllo sulle strategie matrimoniali, in potenziale conflitto con le alleanze familiari e parentali. Il controllo delle famiglie viene comunque in qualche misura mantenuto attraverso l’elevazione dell’età in cui i nubendi potevano liberamente esprimere il proprio consenso (30 anni per gli uomini di 25 anni per le donne), dovendosi in età inferiore ricorrersi al consenso dei genitori. Si afferma dunque un modello di matrimonio fondato sulla irreversibilità del consenso e soprattutto sulla irreversibilità della dipendenza della moglie rispetto al marito. Mentre il maschio diviene capofamiglia, nel momento in cui si è svincolato dalla tutela parentale, la femmina può esercitare formalmente la propria libertà solo all’atto del passaggio dalla tutela del padre alla tutela del marito. La famiglia veniva dunque a costituire un’unità produttiva. L’uomo e la donna contraevano matrimonio quando erano in grado di apportare risorse nella convivenza familiare. Ciò comportava che non tutti potevano sposarsi, ed è noto che il destino dei figli cadetti e delle figlie senza dote, era quello di non poter accedere alla scelta matrimoniale. Il consolidamento dei gruppi sociali, realizzato attraverso lo strumento del matrimonio, si fondava essenzialmente sulla differenza sessuale, che si articolava attraverso una suddivisione dei compiti, generando rapporti di interdipendenza tra i due sessi, fondati sulla subalternità del femminile rispetto al maschile. Solo nel ventesimo secolo sembrano sgretolarsi le strategie della parentela ed i matrimoni paiono nascere in modo spontaneo, pur se comunque sopravvivono forme meno appariscenti di controllo sociale delle relazioni tra i sessi. La concezione dei rapporti d’amore tra i coniugi nelle società del passato, può essere rintracciata in alcuni modelli culturali e letterari, per esempio nella letteratura relativa all’amore cortese e negli autori toscani Boccaccio e Petrarca. E’ tuttavia controverso se essi si producessero poi in vissuti reali ovvero rimanessero una mera costruzione ideale e culturale. In ogni caso, gli storici generalmente collocano la nascita della dimensione affettiva nei rapporti di coppia, e in genere nei rapporti familiari, nella seconda metà del ‘700, con la nascita del capitalismo industriale, in relazione alla progressiva affermazione di una dimensione più individualistica, legata all’avvento della cultura illuministica e alla maggiore sensibilità ai diritti umani e alle libertà. Nella società tradizionale, la scelta del coniuge era legata a strategie che avevano il duplice presupposto dell’omogamia, ovvero ci si sposava con una persona socialmente simile, e dell’esogamia, ovvero occorreva uscire dal gruppo di appartenenza, per stabilire alleanze con un gruppo diverso. Tali equilibri hanno subito significative modifiche, a seguito della maggiore mobilità geografica e sociale, consentita dal fenomeno dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione della seconda metà dell’ottocento. Essa ha avuto come conseguenza l’ampliamento dei mercati matrimoniali, sicché i criteri di somiglianza sono diventati più elastici. Ma la vera trasformazione del matrimonio e delle strutture familiari si è avuta con la diffusione, già nel secolo scorso, ma più incisivamente nella prima metà di questo secolo, del mito dell’amore romantico come fondante il matrimonio. Con l’accrescimento del peso specifico dell’individuo nella società e nella sua articolazione familiare, si è avvertita l’importanza della dimensione sentimentale-amorosa nel rapporto coniugale. Si è verificata una rivoluzione copernicana nei valori, a fondamento dei legami familiari e interpersonali: mentre nelle società tradizionali l’amore è percepito come potenzialmente pericoloso e distruttivo delle strategie familiari e della stessa stabilità del matrimonio, sicché un tempo le scelte matrimoniali erano pilotate dai genitori, nella società contemporanea tale scelta è liberamente esercitata dai coniugi. Ne deriva, dunque, una ‘socializzazione’ dei giovani ad innamorarsi e a farsi guidare da questo sentimento nella scelta del partner. Anche se in modo più sottile, comunque il controllo delle famiglie di origine si esercita, indirizzando le frequentazioni dei giovani verso ambienti in cui potenzialmente potranno incontrare la persona idonea a contrarre un buon matrimonio. Naturalmente, l’ideologia dell’amore romantico come fonte di legittimazione del matrimonio contemporaneo, altera profondamente e indebolisce le tradizionali strutture della parentela. La coppia, infatti, acquisisce un’autonomia spaziale, economica e decisionale rispetto alla parentela e può concentrarsi esclusivamente sul proprio rapporto. Il codice dell’amore romantico fonda un processo di autonomizzazione dei figli rispetto ai genitori e alle famiglie di origine, consentendo ai giovani una libertà che non avevano mai sperimentato e così favorendo fenomeni di innovazione e di eversione sociale. Tuttavia, non deve trarre in inganno il raggiungimento di un modello di relazione di coppia che, sul piano affettivo, presuppone reciprocità e scambio. In realtà, l’ideologia dell’intimità e dell’unità della coppia sortisce l’effetto di facilitare l’affermarsi dell’uomo nel mondo sociale e del lavoro, mentre subordina l’identità della donna a quella di moglie e di madre e ne indebolisce la possibilità di intrattenere relazioni sociali autonome. Nel secolo scorso, lo spazio di affettività della coppia viene comunque scisso dall’erotismo e dalla sessualità e ricondotto al comune progetto educativo ed affettivo nei confronti dei figli. La donna è al centro di questo progetto, viene protetta da contaminazioni esterne di tipo corporeo e confinata nello spazio domestico. Questo modello familiare si traduce nell’immaginario cattolico della sposa come madre e nell’affermarsi del duplice valore della verginità prematrimoniale e della castità matrimoniale, che rappresenta una strategia di disciplina del mondo maschile e di controllo della procreazione. Solo successivamente, con l’avvento della società borghese, si verifica un secondo passaggio. L’unità di coppia diviene anche unità erotica, sicché la sfera dell’affettività diviene il terreno comune della relazione di coppia, mentre per il resto uomo e donna continuano a vivere in sfere assai differenziate. Tuttavia, il mito dell’amore romantico, se da un lato ha rafforzato la coppia rispetto alle relazioni di parentela, dall’altro rappresenta il principio disgregatore dell’istituzione matrimoniale, e particolarmente della sua irreversibilità. Infatti, affidando la durata del matrimonio alla sopravvivenza dell’amore e dunque alla connotazione paritaria insita in questo sentimento, si introduce l’elemento della scelta e quindi la possibilità della rottura. Il nuovo modello di matrimonio è dunque negoziale e non fusionale. Il complesso dell’amore romantico, con la conseguente crescente autonomia nei comportamenti e nelle scelte nelle generazioni più giovani, unitamente al processo dell’emancipazione femminile, hanno determinato un rilevante cambiamento di fisionomia dell’istituzione matrimoniale. Esso si traduce in una riduzione del tasso di nuzialità e in un ritardo nell’età delle prime nozze, cui corrisponde invece una tendenza all’abbassamento dell’inizio della vita sessuale, sicché si scinde il legame tradizionalmente riconosciuto tra matrimonio, sessualità e riproduzione. Tale rivoluzione culturale ha avuto il suo culmine negli anni ‘60, attraverso il movimento studentesco e delle donne, che hanno segnato una modifica radicale dei comportamenti e delle relazioni tra i sessi. A seguito della rivoluzione sessuale di quegli anni, l’innamoramento diviene da solo elemento di legittimazione per l’esercizio della sessualità, sicché essa non passa più attraverso il vincolo del matrimonio. In altri termini, l’amore e il sesso costituiscono una base della coppia anche a prescindere dal matrimonio. Ciò incentiva il fenomeno delle convivenze e delle coppie di fatto, anche di carattere temporaneo o di breve durata. Si osserva anche una trasformazione della concezione del matrimonio che si fonda su una visione egualitaria della coppia, sicché il rapporto a due non è un dato acquisito, ma viene continuamente riscritto e rinegoziato. Tale processo di democratizzazione della vita privata, ha condotto alla centralità dell’autonomia della persona. La negoziazione degli equilibri interni alla coppia deve fare i conti non solo con le dinamiche intrinseche alla coppia stessa, ma soprattutto con la presenza di fattori esterni, sicché essi possono in breve tempo subire radicali processi di trasformazione. Come conseguenza dell’emancipazione femminile, si diffonde un modello egualitario di coppia, fondato sul dialogo e sulla negoziazione, piuttosto che sulla funzionalità. Le suddette trasformazioni delle relazioni interpersonali nella società contemporanea determinano, peraltro, la coesistenza di diversi modelli di matrimonio, da quelli più tradizionali maggiormente basati sulla fusionalità, a quelli in cui prevale il carattere simmetrico della negoziazione. Peraltro, la centralità del rapporto di coppia e di tutte le implicazioni ad esso inerenti, piuttosto che fondarsi sulla dimensione sociale del matrimonio, si traduce, in epoca contemporanea, nel sorgere di una pluralità di  modelli di matrimonio e di coppia. Parallelamente, a seguito del cambiamento del ruolo della donna, della riduzione della natalità, dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento delle famiglie monogenitoriali, si determina il fenomeno della destrutturazione della famiglia nucleare [4]. Si diffonde un fenomeno di democratizzazione della vita privata, che presuppone l’autonomia della persona come valore fondante. In generale, si assiste ad un processo di secolarizzazione del matrimonio, con un conseguente aumento dei matrimoni con rito civile. Tale istituzione viene infatti viene sempre meno ricondotto ad una dimensione meta- individuale e meta – familiare, come dimostra il nuovo diritto di famiglia del 1975, preceduto dalla legge sul divorzio e dal relativo referendum, con i quali si è introdotta anche in Italia la possibilità di sciogliere il vincolo matrimoniale. Il nuovo diritto di famiglia si fonda su un modello di matrimonio essenzialmente simmetrico, in cui non esiste più il capo famiglia e ai sensi dell’articolo 143 cod. civ., entrambi i coniugi concordano l’indirizzo della vita familiare e stabiliscono di comune accordo la residenza familiare. Un altro rilevante fenomeno cui si è fatto riferimento, è l’aumento delle convivenze di fatto, conseguente al mutamento dei rapporti tra le generazioni e alla riduzione del potere di controllo dei genitori sui figli. Le convivenze di fatto possono anche avere durata temporanea e costituire una fase giovanile che prelude al matrimonio. Accanto alle convivenze giovanili vi sono tuttavia anche le convivenze tra adulti, spesso con dei figli. In Italia, soprattutto al nord, si è verificato un sensibile aumento delle coppie di fatto, che sta producendo rilevanti effetti anche di carattere giuridico, in quanto, compatibilmente con la salvaguardia della libertà delle parti, vengono previsti dei meccanismi di protezione per la prole, nell’ottica di un’equiparazione della posizione dei figli naturali rispetto a quella dei figli legittimi. Orbene, il comune denominatore delle convivenze di fatto è comunque legato alla minore stabilità delle stesse rispetto a quelle matrimoniali. Esse caratterizzano soprattutto il passaggio dall’età giovanile all’età adulta, e in tal caso hanno connotazioni fortemente negoziali ovvero si formano in età adulta, tra persone che escono da precedenti esperienze matrimoniali. Un’ ulteriore conseguenza è poi che queste coppie non hanno per loro stessa scelta carattere di tutela delle parti deboli, che in questo tipo di rapporto finiscono per non trovare alcuna protezione istituzionale.

3. Il dilagare della crisi del matrimonio e il sorpasso dei single.

Alla connotazione fortemente egualitaria e negoziale dei rapporti coniugali in epoca contemporanea, consegue la legittimazione della diffusione del divorzio, che costituisce una valvola di sfogo per le tensioni che inevitabilmente sorgono dalla convivenza tra due persone. Mentre tradizionalmente, la causa principe di scioglimento del matrimonio era individuata nella sterilità della donna o nell’infedeltà, perlopiù della donna, nelle società contemporanee possono valere ragioni meno specifiche, fondate sull’incompatibilità, sulla mancanza d’amore e così via, con progressiva abolizione degli istituti di separazione per colpa e residualità delle pronunce di addebito. Peraltro, l’incremento delle separazioni e dei divorzi è anche connesso al sensibile allungamento della vita media, che da un lato aumenta le tensioni insite nella vita di coppia e dall’altro incentiva l’esigenza e la volontà di cambiamento. Lo scioglimento del matrimonio o la separazione nella coppia contemporanea hanno inoltre una rilevante conseguenza sulla rete sociale della coppia, che è vista come unità affettiva e relazionale. In tutti i paesi occidentali, statisticamente dalla fine degli anni ’60 – inizio anni ‘70, si verifica un aumento esponenziale delle separazioni e dei divorzi. All’aumento dei casi di divorzio corrisponde inevitabilmente una diminuzione della durata dei matrimoni. Da una rilevazione dell’Istat, relativa alle separazioni e ai divorzi condotta presso le cancellerie di 165 tribunali civili, è emerso che nel 2011 le separazioni sono state 88.797 e i divorzi sono stati 53.806, con un notevole incremento delle separazioni e una lieve riduzione dei divorzi; nel 2009 le separazioni sono state 85.945 e i divorzi 54.456, con un incremento rispettivamente del 2,1% e dello 0,2% rispetto all’anno precedente. La recente flessione del numero dei divorzi pare imputabile alla crisi economica o a fenomeni di adattamento a situazioni non giuridicamente consacrate, mentre continua ad aumentare il fenomeno della disgregazione dei nuclei familiari, come si evidenzia nell’incremento delle separazioni. La durata media del matrimonio, al momento dell’iscrizione a ruolo del procedimento, è risultata pari a 15 anni per le separazioni e a 18 anni per i divorzi. L’età media della separazione è di circa 45 anni per i mariti e 41 anni per le mogli; in caso di divorzio raggiunge rispettivamente i 47 e 43 anni. Questi valori sono aumentati negli anni, sia per una drastica diminuzione delle separazioni sotto i trent’anni – in gran parte effetto della posticipazione delle nozze verso età più mature – sia per un aumento delle separazioni con almeno uno sposo ultrasessantenne. Un ulteriore dato interessante è quello per cui nel 2011, per il 19,1% delle separazioni è previsto un assegno mensile per il coniuge (nel 98% dei casi corrisposto dal marito). Tale quota è più alta al Sud e nelle Isole (rispettivamente 24% e 22,1%), mentre nel Nord si attesta al 16%. Gli importi dell’assegno mensile sono, al contrario, mediamente più elevati al Nord (562,4 euro) che nel resto del Paese (514,7 euro). Peraltro, la destabilizzazione del rapporto matrimoniale si verifica in tutte le fasce generazionali e dunque nell’ambito di diverse tipologie di matrimonio. All’incremento del tasso di divorzio si accompagna, come concausa e nello stesso tempo come effetto, una legislazione più ampia e più permissiva rispetto al divorzio. Per contro, al sensibile aumento delle separazioni e dei divorzi e dunque dei fattori di disgregazione delle famiglie, corrisponde una notevole riduzione del numero dei matrimoni. In particolare, a livello nazionale, risulta che nel 2005 furono celebrati 247.740 matrimoni, che si sono ridotti a 230.613 nel 2009, particolarmente nel Centro- Nord. Questo trend ha avuto una parziale inversione, atteso che nel 2012 sono stati celebrati 207.138 matrimoni ovvero 2308 in più del 2011. A livello europeo l’Italia rappresenta un’anomalia, atteso che a fronte di un aumento esponenziale delle separazioni coniugali, corrisponde un numero ridotto di divorzi. Soprattutto nelle regioni meridionali, la separazione e il divorzio sono diffusi nelle classi più elevate, dove è maggiore la capacità di gestione della conflittualità rispetto alle classi sociali più modeste. Nel trend dell’incremento delle separazioni e dei divorzi è significativo il diffondersi di una mentalità che antepone il benessere individuale nel rapporto coniugale, rispetto ai valori esaltati nel passato, tra cui quello del sacrificio di una delle due parti, normalmente la donna, nel rapporto coniugale e nella vita familiare. Ciò spiega anche perché la donna si fa normalmente promotrice delle istanze di separazione, soprattutto allorquando ha una propria autonomia professionale. È pur vero che l’incremento delle rotture dei nuclei familiari viene indicato come una delle principali cause di povertà delle donne e dei bambini. Una delle cause di instabilità dei rapporti coniugali viene individuata nella mancata adesione ai modelli tradizionali di ripartizione dei ruoli e dei compiti tra i sessi. Sebbene le donne, come spesso accade, siano parte debole del rapporto, continuano a pagare un prezzo altissimo in termini di debolezza economica, tenuto anche conto del fatto che su di esse continua a gravare l’onere della crescita e dell’educazione dei figli. Tuttavia, in un’ottica maggiormente negoziale e libertaria della vita coniugale, i rischi di impoverimento non scoraggiano un rilevante numero di donne, pur con scarse possibilità reddituali, ad intraprendere la strada della separazione. Non solo, ma un recente fenomeno che accomuna i paesi occidentali è quello della contrazione del numero dei matrimoni. Negli USA la percentuale dei single ha sorpassato per la prima volta quella degli sposati: dal 45,6% al 44, 9%. Così, la percentuale continentale è scesa dal 5,1 al 4.9 ogni mille abitanti nel giro di dieci anni. Il giurista americano Posner, partendo dal dato che negli USA solo i 2/3 dei matrimoni durano più di dieci anni e il 40% dei figli nascono fuori dal matrimonio, spiega che il declino della mortalità infantile e l’aumento della possibilità di impiego delle donne hanno ridotto la domanda di bambini e innalzato l’età media del matrimonio, portando così alla riduzione del numero degli stessi matrimoni [5]. Una chiave di lettura di questo fenomeno viene ricondotta alla crescente emancipazione della donna, alla luce della tesi post-strutturalista, stando alla quale l’istituzione del matrimonio è stata funzionale al predominio maschile sulla donna, utilizzata come strumento di riproduzione e al suo controllo. Secondo l’interpretazione della sociologa Saraceno, il visibile calo dei matrimoni negli Stati Uniti, è dovuto in larga misura alla perdita di forza sociale di tale istituzione. Essa infatti non è più necessaria né per convivere come coppia né per procreare, e non costituisce più una modalità privilegiata di collocazione sociale della donna, atteso che la facilità dei divorzi ne indebolisce tale funzione di garanzia. Sempre meno lo status della donna dipende da quello del marito, pur se anche in tale Paese la parità effettiva tra i sessi non è stata ancora raggiunta e, perlomeno nelle professioni apicali, continua ad esistere il cosiddetto ‘soffitto di cristallo’. In Italia si è sviluppato un fenomeno particolare, costituito dal ritardo con cui vengono celebrati i matrimoni, sicché la generazione dei giovani di oggi è stata definita ‘generazione del rinvio’. Ciò è legato all’endemica difficoltà delle attuali generazioni, potenzialmente disponibili sul mercato del lavoro, a trovare in esso una collocazione. Un ulteriore aspetto è la diffusione delle convivenze di fatto, non come soluzione definitiva, ma come nuova tappa della vita di coppia, prima di sposarsi e dunque come alternativa temporanea al matrimonio stesso. In particolare, l’esperienza delle coppie di fatto sta trovando grande diffusione nel centro-nord, come dimostra l’elevato numero di procedimenti ai sensi dell’articolo 317 bis cod. civ. (relativi ai figli di genitori non coniugati), pendenti davanti ai Tribunali per i Minorenni settentrionali. Invero, sia tali difficoltà sia il fatto che in Italia la divisione del lavoro è ancora fondata su differenze di genere, conduce i giovani a cercare, sia pure in via transitoria, delle forme alternative di rapporti di coppia, istituzionalmente più leggere. In definitiva, i significativi mutamenti che si sono verificati nelle società occidentali circa i rapporti tra i sessi e il ruolo sociale delle donne, hanno determinato un depotenziamento dell’istituto del matrimonio come fondamento dell’ormai tramontata famiglia nucleare, fondata come si è già visto, sull’affermazione della parte maschile.

4. L’evoluzione normativa in materia di separazione e divorzio – riforma dell’affidamento condiviso. 

Negli ultimi trent’anni, in tutto il mondo occidentale si è verificato un aumento esponenziale della rottura delle unioni coniugali, come conseguenza della modifica della norma tradizionale che prevedeva l’indissolubilità del matrimonio e come affermazione di una norma sociale che preveda l’autodeterminazione della coppia, privilegiando la soggettività degli intimi desideri dei suoi componenti [6]. Il divorzio è stato introdotto nelle legislazioni europee in cui non era ancora stato ammesso, ivi compresa l’Italia, ed è stato dappertutto reso più rapido e più facile: sono stati abbreviati i termini, sono state introdotte forme di divorzio consensuale, è stato aumentato il potere di autodeterminazione delle parti, è stata abolita la concezione del divorzio come conseguenza di un comportamento colpevole di una delle parti, in quanto contrario ai doveri matrimoniali. Nell’ultimo secolo il regime giuridico della famiglia ha attraversato rilevanti trasformazioni. Nel secolo scorso, unico esercente la potestà sui figli era il padre, capo indiscusso della famiglia patriarcale ed unico deputato a provvedere alla buona educazione ed istruzione dei figli. Con la riforma del 1975, si è introdotta la diversa visione della parità ai coniugi e dunque le parti si sono invertite, nel senso che da allora i figli sono stati affidati prevalentemente alla madre, sulla base di un giudizio generalizzato della maggiore idoneità della figura materna a farsi carico dei bisogni dei figli. Tale orientamento si fondava su una visione arcaica della famiglia, concepita secondo ruoli genitoriali predeterminati, che non teneva conto della crescente autonomia conquistata dalla donna e del maggiore inserimento della stessa nel mondo del lavoro. D’altra parte, l’affidamento monogenitoriale, previsto dal vecchio articolo 155 cod. civ., consentiva alla madre di farne un uso strumentale per restringere gli spazi di partecipazione del padre alla vita dei figli. Il padre, attraverso la consueta regolamentazione del diritto di visita, veniva relegato al ruolo di genitore del tempo libero, compagno di gioco del figlio, con conseguente perdita di autorevolezza del suo ruolo e della sua tradizionale funzione educativa. Nel 2006 in Italia si è data attuazione al principio della bigenitorialità, già da tempo espresso dalle convenzioni internazionali, con l’entrata in vigore della Legge 8 febbraio 2006, n. 54, Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, che ha sancito il diritto del minore a conservare un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori,  prevedendo una nuova disciplina della potestà genitoriale e dell’affidamento, improntata alla condivisione delle responsabilità tra i genitori. Nell’ambito di tale disciplina, non viene più preso in considerazione il solo profilo attinente alla crisi della coppia coniugale, e dunque la gestione (di rilievo meramente civilistico) dei rapporti controversi tra coniugi, ma diventa centrale il profilo di carattere pubblicistico relativo alla tutela dell’interesse per una crescita serena ed equilibrata dei figli minori. In quest’ottica, la posizione del figlio di genitori separati o separandi viene posta su un piano del tutto diverso da quella dei genitori, e conseguentemente viene enunciato l’importante principio secondo cui il figlio ha il diritto di mantenere un rapporto con entrambi i genitori. La sempre maggiore considerazione dei diritti del fanciullo, che ha avuto impulso anche a seguito dell’evoluzione della legislazione internazionale, è sfociata dunque nella consacrazione normativa del principio della bigenitorialità, che costituisce un diritto del figlio a conservare la presenza di entrambi i genitori nella sua vita. Conseguentemente, la potestà, che più correttamente viene oggi denominata responsabilità, non è più strutturata come un insieme di poteri che sono attribuiti ai genitori per realizzare la funzione formativa ed educativa del figlio, ma ora i figli sono diventati protagonisti della vita familiare, titolari di diritti, mentre i genitori sono solo strumenti per adempiere ai doveri nei confronti della prole [7]. A distanza di otto anni dall’entrata in vigore della legge sull’affidamento condiviso, si riscontra un aumento delle richieste di affidamento condiviso e dei provvedimenti emessi in tal senso, anche se persiste l’asimmetria del carico di lavoro familiare, che grava sulle donne per il 76%, con un lieve calo delle coppie in cui la donna, soprattutto al sud, lavora ed è laureata. Alla persistenza di una forte disuguaglianza di genere, consegue che l’affidamento condiviso continua ad essere sovente un mero dato formale, cui non corrisponde una reale condivisione delle responsabilità e degli oneri genitoriali. Gli studi evidenziano peraltro l’accrescersi dell’importanza della figura del genitore sociale, sicché il vero padre diventa il nuovo convivente della donna. A ciò consegue la rarefazione del ruolo del padre biologico, che dipende da una maggiore difficoltà del medesimo nell’assunzione dei compiti genitoriali, dall’assenza della mediazione della figura materna, da difficoltà di conciliare gli impegni del padre con la nuova vita dei figli, e nei casi più drammatici, da deliberate strategie poste in essere dalla madre per sabotare i rapporti tra i figli e l’altro genitore. Spesso tuttavia i padri separati sono assenti per propria scelta dalla vita dei figli. Solo un’esigua minoranza di padri si occupa attivamente della cura primaria dei figli, anche se è in atto un trend positivo per cui sta aumentando la frequenza della relazione tra padri e figli. Sta inoltre cambiando il ruolo del padre, nel senso che è attualmente più improntato a valori di tipo affettivo. Sta dunque sorgendo, seppure ancora in termini numericamente limitati, una nuova generazione di padri, che costituiscono una sorta di ‘avanguardia della rivoluzione maschile’, come la definisce R. Berardini De Pace. Tale rivoluzione è molto di là da compiersi ed è limitata dunque a frange ancora marginali, essendo comunque ispirata la nostra società ancora ad una netta ripartizione dei ruoli genitoriali tra padri e madri. La legge sull’affidamento condiviso rappresenta in definitiva un caso in cui l’evoluzione normativa è più avanzata rispetto a quella del costume sociale. Infatti, la bigenitorialità, intesa come diritto del figlio ad avere la presenza di due genitori della sua vita, anche a seguito della separazione coniugale, non appartiene ancora alla nostra cultura diffusa e la pressione giudiziaria non basta ancora a determinare un radicale cambiamento del costume sociale. Poiché l’attuazione di questa legge ha deluso quei padri che sentono frustrante la loro marginalizzazione rispetto alla crescita dei figli, sono in atto dei movimenti di pensiero che mirano a introdurre previsioni più radicali al fine di dare un’attuazione più rigorosa al principio della bigenitorialità. Si fa in particolare riferimento al ddl  957/10, altrimenti detto affidamento condiviso bis o affidamento paritetico, che mira a stabilire un tempo di permanenza del figlio tendenzialmente equivalente presso entrambi i genitori, con fissazione per il medesimo di una doppia residenza presso ciascuno dei genitori. Tale radicalizzazione non manca di sollevare delle critiche, in quanto questa proposta finisce per realizzare, più che una genitorialità condivisa, una genitorialità divisa, con rischi di scissione nella vita del figlio. In realtà, occorre andare alla radice del conflitto coniugale e degli opposti punti di vista, di padri che si sentono marginalizzati nel rapporto con la prole e, d’altra parte, di madri che si sentono totalmente sole nell’affrontare la responsabilità e la fatica quotidiana che la crescita dei figli impone. Soltanto attraverso una rifondazione dei ruoli genitoriali in termini di maggiore elasticità e fungibilità, potrà veramente attuarsi lo spirito avanzato già previsto dalle convenzioni internazionali e che il legislatore nazionale ha cercato di tradurre in ambito giudiziario con la riforma sull’affidamento condiviso. 

5. La nuova emergenza della famiglia di fatto. La parificazione tra figli legittimi e naturali.

Alla riduzione dei matrimoni nei paesi occidentali, ha fatto seguito l’aumento delle convivenze di fatto. In alcuni casi, particolarmente in età giovanile, le convivenze di fatto si trasformano nel tempo in matrimoni e rappresentano dunque una sorta di rito di passaggio verso l’unione matrimoniale. Le convivenze di persone in età adulta, specie se fanno seguito a precedenti esperienze matrimoniali, assumono invece le connotazioni di una autonoma forma di aggregazione familiare. In generale, le convivenze fuori dal matrimonio sono caratterizzate da una maggiore autonomia reciproca dei partner, sia livello economico che di organizzazione dello spazio, del tempo e della vita sociale [8]. Anche in Italia, sia pure con un certo ritardo rispetto al resto dell’Europa, si sono affermati nuovi istituti giuridici in materia di diritto di famiglia (divorzio, l’adozione legittimante, riforma del diritto di famiglia), ispirati al rispetto dei processi di autonomizzazione delle persone all’interno delle aggregazioni familiari. Ciò ha determinato l’incremento delle forme di convivenza sganciate dal matrimonio. In particolare, nell’ultimo decennio, non solo si è accresciuto il fenomeno delle convivenze prematrimoniali, e delle convivenze tra due matrimoni, ma, soprattutto nel Nord Italia, si è incentivato il fenomeno della negoziabilità delle convivenze e dunque delle convivenze fuori dal matrimonio. Mentre solo l’1,4% dei matrimoni celebrati prima del 1974 era stato preceduto da convivenza, tale quota è salita al 98,8% tra il 1984 1993, al 14,3% dal 1999 al 2003. La crescita di questo fenomeno ha anche determinato una evoluzione giuridica volta a parificare la filiazione naturale alla filiazione legittima. In tal senso si segnala la Legge 10 dicembre 2012 n. 219, disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali, seguita dal recentissimo d.lgs. 28 dicembre 2013 n. 154, attuativo della delega contenuta nell’art. 2 della predetta legge. Tale riforma ha realizzato, almeno sul piano sostanziale, la parificazione della filiazione naturale alla filiazione legittima, che prevede l’abolizione del doppio status tra figli naturali e figli legittimi. Invero, la cosiddetta famiglia di fatto ha assunto rilevanza giuridica, ai fini della tutela dei figli naturali, con il nuovo diritto di famiglia, che ha introdotto l’art. 317 bis cod. civ., oggi modificato dalla menzionata riforma della filiazione. E’ noto, peraltro, come l’emersione giuridica della famiglia di fatto non ha comportato una parificazione con la famiglia legittima, atteso che con riferimento ai figli naturali il legislatore incentrava la propria attenzione unicamente sull’esercizio della potestà dei genitori, attraverso una procedura di volontaria giurisdizione, mentre solo nelle situazioni di crisi della famiglia legittima si è istituito un procedimento di tipo contenzioso attraverso il quale regolamentare, oltre alle questioni di status e ai rapporti tra i coniugi, i profili relativi all’affidamento ed il mantenimento della prole, secondo i principi stabiliti dall’art. 155 cod. civ. Sennonché nella prassi si è verificata una notevole crescita del fenomeno delle famiglie di fatto, con un sensibile incremento dei ricorsi proposti al Tribunale per i Minorenni per una regolamentazione generale dell’esercizio della potestà nei confronti dei genitori non conviventi. Con l’entrata in vigore della citata Legge 8 febbraio 2006, n. 54,  è stato modellato il procedimento ex art. 317 bis c.c., oggi ricondotto dal modificato art. 38 disp. att. c.c. al rito camerale, per la sola regolamentazione dei rapporti con la prole nata da genitori non coniugati, modellato su quello previsto dall’art. 155 c.c. in materia di separazione tra coniugi. All’unificazione delle competenze davanti al tribunale ordinario, non è dunque corrisposta l’unificazione dei riti, in quanto relativamente ai figli nati fuori dal matrimonio continua a operare un rito maggiormente semplificato, in quanto improntato al modello della volontaria giurisdizione. Orbene, la menzionata legge 10 dicembre 2012 n. 219, completata dal decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154, realizza la piena parificazione dei diritti spettanti ai figli nati fuori dal matrimonio con quelli nati nel matrimonio, eliminando ogni distinzione, anche terminologica, tra figli naturali e figli legittimi (il testo prevede che nel codice civile, le parole “figli legittimi” e “figli naturali”, ovunque ricorrano, siano sostituite da “figli”) ed equiparandone lo status giuridico (l’articolo 315 cod. civ. è sostituito dal seguente: “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”). Viene inoltre espressamente riconosciuta, anche per i figli nati fuori dal matrimonio, la parentela con i familiari diversi dai genitori, essendo stato il previgente art. 74 cod. civ., sostituito dalla previsione che “La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimoni.” Controversa è la modifica della disciplina sui figli incestuosi, spesso nati da abusi intra-familiari, che prevede la possibilità del riconoscimento, previa autorizzazione del tribunale per i minorenni. Va segnalata infine, con l’inserimento dell’art. 315 bis del cod. civ., l’introduzione dei diritti del figlio di “crescere in famiglia e mantenere rapporti significativi con i  parenti” (formula ripresa dalla disciplina dell’affidamento condiviso, cfr. art. 155 cod. civ., come modificato dalla legge n. 54/2006) e di essere ascoltato, se maggiore di anni 12, in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Sul piano processuale, l’anzidetta normativa trasferisce la competenza per i procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati davanti al tribunale ordinario. Si tratta di un intervento frettoloso, in quanto non viene in alcun modo disciplinato il rito, che rimane quello camerale e nulla è previsto in ordine alla trattazione delle questioni de potestate in pendenza di procedimento. In definitiva, pur se appare di fondamentale importanza l’affermazione di principio relativa alla parificazione tra filiazione legittima e naturale, deve ancora compiersi molta strada, per la completa tutela dei diritti dei figli naturali. Invero, accanto ad una riflessione di tipo progressista, che mira a dare dignità alle scelte di vita difformi rispetto ai modelli tradizionali e attribuisce centralità alla tutela dei minori, la minore stabilità delle convivenze viene guardata con preoccupazione, in quanto determina un incremento del numero dei minori potenzialmente coinvolti nelle dinamiche di separazione tra i genitori, laddove il tessuto sociale e istituzionale non è ancora sufficientemente attrezzato a dare tutela alle parti deboli nei rapporti familiari.

Valeria Montaruli, Magistrato, si è occupata a lungo di procedimenti in materia di famiglia e persona. Per molti anni ha esercitato le funzioni di giudice in ambito penale. E’ stata inoltre giudice minorile. Ha nel tempo collaborato con alcune riviste giuridiche, pubblicando diversi articoli e note a sentenze. E’ stata, nell’ultimo triennio, relatrice in numerosi incontri di studio di diritto minorile, in materia di procedimenti de potestatemobbing familiare e profili relativi alla tutela civile. In particolare, ha coordinato gruppi di studio in materia familiare e minorile presso il Consiglio Superiore della Magistratura, e nell’ambito della neo istituita Scuola della Magistratura. Ha svolto attività di docenza presso la Scuola di specializzazione nelle professioni legali dell’Università degli studi di Bari. E’ stata componente della Commissione d’esami per il concorso in magistratura. E’ autrice e co-autrice di varie opere monografiche, particolarmente in materia di responsabilità civile. Attualmente è Presidente del Tribunale per i Minorenni di Potenza.

NOTE:


[1]  Presidente del Tribunale per i Minorenni di Potenza.

[2]  Cfr. V. Pocar-P. Ronfani, La famiglia e il diritto,  Laterza, Bari, 2006, p. 132.

[3] Cfr. C. Saraceno-M. Naldini, Sociologia della famiglia, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 70: si evidenzia come, in questo quadro di acquisizione di nuove autonomie, il legame di parentela viene interpretato come potenzialmente conflittuale, sia con quello della democrazia, che con quello dell’efficienza.

[4] Cfr. A. Bonomi, “Agire nella zona grigia della famiglia delle moltitudini”, relazione al congresso dell’AIMMF tenutosi a Milano nel novembre 2009, Infanzia e diritti al tempo della crisi:verso una nuova giustizia per i minori e la famiglia,in www.minoriefamiglia.it.

[5] Cfr. A. Acquaro-C. Saraceno, “Matrimonio? No grazie, il sorpasso dei single in USA”, in La Repubblica, 9 novembre 2011.

[6] C. Saraceno-M. Barbagli, Separarsi in Italia, Bologna, Il Mulino,  1998, 232 ss.

[7]  Cfr. F. Buttiglione, ‘Alla ricerca di prassi virtuosa in materia di famiglia dopo la legge n. 54/06, affidamento condiviso ed esclusivo’, relazione tenuta all’incontro di studi organizzato a Roma, dal Consiglio Superiore della Magistratura, in data 8 marzo 2011.

[8]  Cfr. C. Saraceno-M. Naldini, op. cit., pp. 110 sgg.

Psicologia Giuridica: Valutazioni e Consulenze

Psicologia Giuridica: Valutazioni e Consulenze

Valutazioni e Consulenze:

Il Consulente Tecnico di Parte (CTP) viene nominato dall’avvocato al fine di garantire la corretta tutela dei diritti del proprio cliente nell’ambito del processo; in particolare, prendendo parte alle indagini, egli si impegna affinché il CTU e il consulente di controparte adottino metodologie corrette ed esprimano pareri pertinenti ai dati raccolti e supportati dalla letteratura specialistica. Nell’esercizio del proprio incarico di CTU o di CTP, gli psicologi devono possedere un’adeguata formazione ed esperienza nella materia oggetto della valutazione, nonché delle norme e dei codici che regolano la materia giuridica e i rapporti tra consulenti e organi giudiziari. L’intervento dello psicologo forense, in caso di separazioni coniugali, può rappresentare uno spazio di conoscenza utile a promuovere una maggiore consapevolezza delle problematiche connesse al mutamento della situazione familiare e a favorire le risorse genitoriali e familiari funzionali al benessere dei minori. Lo psicologo sempre più frequentemente viene interpellato dall’interessato o dall’avvocato dello stesso prima di presentare il ricorso in tribunale, proprio per trovare supporto in una valutazione specialistica, ad esempio sulla capacità genitoriale del cliente e/o sulla situazione dei minori. Egli può esprimere il proprio parere nel caso in oggetto, suggerendo eventuali approfondimenti o interventi, integrando le proprie competenze specialistiche con quelle dell’avvocato. La consulenza psicologica è necessaria ai fini della valutazione dello stato psicologico della persona, ad esempio nei casi di interdizione e inabilitazione, di proposta di amministrazione di sostegno. Nelle consulenze sulla valutazione del danno non patrimoniale, lo psicologo ha il compito di svolgere una complessa valutazione diagnostica circa l’eventuale presenza di un danno psichico e/o di pregiudizio alla vita abituale della persona; l’oggetto della valutazione psicologica è la salute mentale e il benessere psicologico, e come tale di competenza dello psicologo. Infatti, lo psicologo è abilitato formalmente ad effettuare attività di diagnosi psicologica in base all’art.1 della Legge n. 56 del 1989 (Ordinamento della professione di Psicologo). La psicologia è la scienza che studia il comportamento e le funzioni mentali normali e patologiche. L’attività di diagnosi psicologica ricomprende quindi al suo interno, come caso specifico, la diagnosi psicopatologica. Tale posizione risulta consolidata storicamente, scientificamente e giuridicamente. Eventi traumatici come incidenti automobilistici, aggressioni, lutti, situazioni di vita difficili, infatti, spesso ingenerano, nelle persone che li subiscono, caratteristiche sintomatologiche che generalmente afferiscono a disturbi d’ansia, dell’umore, dell’adattamento e così via. La nozione di “danno” implica una relazione causale con la sintomatologia eventualmente rilevata.

Riferimenti: “Area di pratica professionale PSICOLOGIA GIURIDICA E FORENSE”, a cura del Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi, “La CTU psicologica in ambito civile nel diritto di Famiglia e nel Danno Non Patrimoniale”, lavoro di studio, ricerca e confronto interdisciplinare nell’area professionale della psicologia giuridica, a cura dell’Ordine degli Psicologi del Veneto.
Relatrice al Primo Convegno Nazionale di Psicologia Giuridica, Bari, 25-26-27 Settembre 2008

Relatrice al Primo Convegno Nazionale di Psicologia Giuridica, Bari, 25-26-27 Settembre 2008

Primo convegno nazionale di Psicologia giuridica
relazione dott.ssa Vallino

L’audizione del minore in regime di affidamento condiviso (abstract) di Marialuisa Vallino

“La condivisione genitoriale ci trova impegnati nell’affrontare problematiche che, pur affioranti nel mondo del diritto, coinvolgono principi etici, sociali e culturali riguardo la posizione del minore all’interno della famiglia e della società in cui vive. L’innovazione maggiormente evidente della Legge 54/2006 è quella di aver richiamato l’opinione pubblica al rispetto di un’eguaglianza sostanziale tra i genitori, e ciò anche in quel contesto litigioso nel quale la conflittualità e le tensioni agiscono come spinte divergenti, pregiudicando la posizione dei minori che ne sono coinvolti. Nella presente relazione vengono affrontate alcune tematiche che definiscono la “grandezza e i limiti” della c.d. bigenitorialità, delineando i fattori emotivi che legano la conflittualità familiare al contesto giudiziario. A tale proposito vengono evidenziati gli “abusi emotivi” subiti dai minori e che si compendiano in alcune sindromi da separazione genitoriale, che si collocano in maniera privilegiata proprio nella fascia d’età per la quale è previsto l’ascolto del minore. Il diritto del minore ad essere ascoltato viene approfondito nei termini di ascolto diretto e indiretto, con riferimento specifico alle aree da indagare, in uno e nell’altro caso. La presentazione di casi e la loro interpretazione chiarisce nei dettagli il ruolo valutativo del C.T.U., chiamato ad esaminare il sistema di vita familiare o l’assetto emotivo di un minore. L’ascolto è da intendersi non solo come strumento d’informazione delle dinamiche familiari in atto, ma come occasione irripetibile per rendere il minore protagonista della propria vita, piuttosto che oggetto di una transazione tra i genitori.”