Interviste, recensioni ed approfondimenti tematici -2016-

Interviste, recensioni ed approfondimenti tematici -2016-

Lunedì, 24 Ottobre 2016 (Intervista ed approfondimento- Radio Vaticana-)

 

 

 

 

Giovedì, 13 Ottobre 2016 (Intervista radiofonica-Primaradio-)

 

 

 

 

Martedì, 14 Giugno 2016 (Il Nuovo Quotidiano di Puglia -Taranto cronaca-)

 

 

 

 

Venerdì, 6 Maggio 2016 (La Gazzetta del Mezzogiorno)

 

 

 

 

Lunedì, 7 Marzo 2016 (La Gazzetta del Mezzogiorno)

 

 

 

 

Gennaio 2016 (recensione su giudicedonna.it)

 

 

 

 

Recensione: “Ifigenia, la vera vittima innocente”, Leggendaria, n. 120 / 2016

La vita “Al Muro” di Rosa Colacoci

La vita “Al Muro” di Rosa Colacoci

La vita “Al Muro” è il progetto fotografico di Rosa Colacoci, avviato già da tempo, che viene condotto attraverso una narrazione riflessiva, sensibile, tipica del linguaggio poetico. La perfezione tecnica delle opere, caratterizzate da un bianco e nero “impattante” evidenzia, di volta in volta, uno spazio psicologico particolare, un’interlocuzione tra il soggetto ritratto e gli oggetti che prendono vita dal suo universo psichico. Il muro (che l’artista ama per la sua “essenzialità”) è simbolo, ricerca di senso, desiderio di andare oltre. Le barriere del vivere quotidiano amplificano la dimensione interiore e la solitudine diviene un viaggio necessario per la piena conoscenza di sé. L’arte, in tal senso, indaga l’essenza stessa del limite, che è fine, ma anche principio. Sono forme interiori quelle che prendono vita nelle opere della Colacoci e il suo “muro” è inevitabile, in quanto simbolo dell’alienazione, ma anche della prossimità. Un muro può rappresentare la separazione dagli altri e il conseguente sentimento di esclusione, ma le barriere possono anche esprimere un’esigenza individuale. Essere “individui”, etimologicamente in-divisi, significa muoversi tra identità ed alterità, accogliere ogni possibile contrasto. Ogni scatto è un piccolo capolavoro, sintesi di quiete e assenza, dove il tutto sembra mutare, elicitando nuove emozioni. La mostra, curata nella serata inaugurale dalla dott.ssa Roberta Passantino, sarà visitabile nei giorni 10-12-13 e 17 agosto 2016 a partire dalle ore 19.00, presso il suggestivo ipogeo di Piazzetta San Francesco, nel centro storico di Taranto.

L'artista

L’artista

Tante le mostre personali e collettive di Rosa Colacoci su tutto il territorio nazionale, tanti i riconoscimenti di critica e pubblico e tante le collaborazioni con altri artisti, la partecipazione a scritti editoriali e al blog della filosofa Maria Giovanna Farina con il sociologo e scrittore Francesco Alberoni. Ricordiamo, tra le opere di maggior successo, la raccolta fotografica dei riti della settimana santa tarantina del 2014, donata in udienza pubblica a Papa Francesco, scelta artistica di pregio, che vede la collaborazione della poetessa Silvia Calzolari (Bergamo) con poesie presenti nell’antologia e con una citazione della regista-attrice Roberta Fiordiponti (Taranto) dedicata al Santo Padre.

di Marialuisa Vallino

Ultimo desiderio: Eros e Pothos… fino alla fine del mondo

Ultimo desiderio: Eros e Pothos… fino alla fine del mondo

L’epitaffio sulla tomba del poeta T.S. Eliot recita: in my beginning is my end, in my end is my beginning. Una citazione, all’inizio di questo articolo, serve per inquadrare il discorso sulla grandezza e i limiti dell’Io, a volte perso nell’universo dei simboli, altre volte perfettamente incastonato nella propria realtà psichica, a contatto con quella “personalità di grado superiore” (Jung), quel gioco di luce e d’ombra che permette di forgiare la realtà. Partendo dai due termini, fine e principio, che già Eraclito aveva posto in una relazione di circolarità, possiamo introdurne un altro, desiderio. Etimologicamente de-siderio fa riferimento ad uno stato di privazione (de-sidus) e alla conseguente attesa. Il termine sembra derivare dalla pratica di osservazione del cielo stellato, da cui gli aruspici traevano, lo sguardo avido sul firmamento, indicazioni per le loro profezie. Il cielo coperto attivava un desiderio delle stelle, che proseguiva sino al loro riapparire. Il desiderio è da intendersi come una tensione interiore verso una prospettiva che è insieme nostalgia e ricerca, qualcosa che tra fine e principio, apre un varco nell’infinito. Psicologicamente, dobbiamo chiederci se non sia proprio la fine di questa dimensione desiderante, questa sospensione tra ciò che c’era e non c’è più, o non c’è ancora, a determinare quella che ormai sembra profilarsi come una inesorabile spinta autodistruttiva. Il malessere individuale insorge quando i bisogni profondi non trovano un valido canale d’espressione, quando il desiderio non è più in grado di tracciare un percorso di senso tra il presente e il futuro, costringendo l’individuo a confrontarsi con una realtà mortifera. Nell’inconscio collettivo, l’Apocalisse, se intesa come archetipo, traccia un duplice sentiero, quello catastrofico  e  quello rivelatore. L’uomo dovrebbe imparare a guardare non tanto in direzione del cielo stellato, per ricevere risposte illuminanti, ma nei segreti recessi dell’anima, perché è lì che il Sé si rivela. Si giunge a toccare veramente se stessi solo per “necessità”, quando la vita si approssima alla fine, presunta o reale, quando non è più possibile aggrapparsi alle proprie certezze razionali. La via della psiche non segue necessariamente il piano di realtà, ma il filo dei simboli. E anche in previsione dell’ultimo atto, l’inconscio offre risposte risolutorie.

Evidentemente l’occasione serve a liberare ulteriormente i sogni proibiti di uomini e donne, a mettere in moto meccanismi altrimenti sopiti o semplicemente usati per abitudine e trasformarli nell’incommensurabile “Ultimo Desiderio” (1).

Cosa accade quando il pensiero di una fine qualunque invade l’Io, e quali strategie adattive può mettere in atto l’uomo? Esiste una risposta consolatoria? Eros, all’approssimarsi dell’ultimo atto, che forma assume?

Tre donne e tre uomini, sei scrittori, allestiscono scenari immaginari e vi inseriscono brevi ma vibranti frammenti esistenziali, sempre in bilico tra dramma e commedia, ricerca interiore e sogni inespressi. L’occasione è la previsione apocalittica dei Maya e il conseguente rimaneggiamento dellhorror vacui attraverso la funzione trascendente. Dodici storie che raccontano l’ultimo desiderio, in una doppia prospettiva, a partire da quella del proprio genere di appartenenza per poi scivolare in quella opposta, e dialogare in profondità con quella controparte sessuale inconscia introdotta da Jung (2). Gli autori Eva Clesis, Berarda Del Vecchio, Gabriella Genisi, Michele Marolla, Michele Monina e Alberto Selvaggi ci ricordano che porsi all’ascolto di se stessi significa accogliere la propria individualità e riappropriarsi di una potenzialità mai sufficientemente utilizzata. Un modo di essere altro da sé, che passa anche attraverso il tradimento: quello attuato da Nicoletta, “per noia, per ripicca, per sentirsi viva”(3) quello consumato sul filo di un’improbabile fine del mondo, “in una specie di ultimo inno alla vita”(4), quello che culmina nella morte simbolica, quale eroico tentativo di riscatto di un’identità negata (5). E poi c’è il patto segreto tra due persone che si ritrovano insieme, per passione o per calcolo, o perché non c’è più tempo (6) o ancora per irretire l’altro nella propria dimensione amorosa, nel proprio sogno, sfidando il tempo e la sorte (7).

Solo grazie alla perdita di qualche certezza è possibile vivere l’esperienza dell’ apokatástasis, cioè la ricostruzione di ciò che è alla base dell’archetipo. Il Sé ci spinge in direzione di un continuo rinnovamento che, come un  fiume in piena, irrompe nella coscienza, abbattendo le resistenze dell’Io.

E questo è particolarmente vero quando l’identità non persegue una logica individuale, ma emerge come Atena dalla testa di Zeus. Ad immagine e desiderio di un altro. Michele Monina descrive magnificamente il riscatto della soggettività che passa attraverso il crollo delle illusioni d’amore.

Una storia d’amore è sempre una partita a quattro, in cui entrano in scena gli aspetti “di genere”, maschili e femminili, ma anche quelli che riguardano “l’altro” da sé. E i vari personaggi, ora reali ora fantastici, non fanno che amplificarne la portata simbolica…

Molte volte la realtà interiore del partner viene vissuta solo sul piano inconscio, e sono le immagini interne a ricreare gli equilibri nella realtà. Questo sembra volerci dire Alberto Selvaggi nei due suoi racconti speculari incentrati sui personaggi di Vittorio Santo e Antonia Sinistra che, già nei nomi, recano i segni che li caratterizzano.

Da sin: Marolla, Selvaggi e Mingo al Festival "Il libro possibile"

Da sin: Marolla, Selvaggi e Mingo
al Festival “Il libro possibile”

Qualche domanda all’autore:

D: Qual è il percorso interiore che porta a tradire? Mi riferisco all’accezione originaria di “consegnare”, privata quindi della connotazione negativa che noi oggi conosciamo.

R: Credo tragga origine da un odore e da un senso di morte che impone la direzione univoca al cambiamento, che si raggiunge consegnando il proprio spirito allo stato rigenerativo nella violenza del caos. Del caos livellatore e generatore nel vacuo, caos che è anche amore creatore, in senso financo religioso.

Probabilmente il caos di cui parla Selvaggi, è quella realtà unitaria simbolica cui alludono alcune cosmogonie: nella sua accezione originaria e priva delle connotazioni “patologiche”, che vanno affrontate in altri contesti, il termine non significa affatto confusione o mescolanza, e la stessa parola Chaos indicava inizialmente lo spazio cavo, spalancato, una porta sul mondo. Anche in Esiodo Caos non è tanto una divinità, quanto un vuoto spalancarsi, “il luogo dove le cose vengono a sussistere” (8).

D: Esiste una segreta simmetria tra Vittorio e Antonia?

R: Ho tratteggiato queste due figure, il marito grigio, succubo e senza qualità, e la moglie in posizione deviante dominante, sulla base di una semplicistica, riduttiva complementarietà sado-maso, immersa in un’atmosfera raggelata, quasi inumana. L’ho fatto d’istinto, senza aver stilato alcun piano narrativo.

Selvaggi precisa di aver descritto questa coppia “mediante una lingua disincantata, dinamica, emozionale, fluente nello stesso magma nel quale pescano in sostanza gli studiosi della mente umana”, evidenziando anche il “limite” dei terapeuti nell’afferrare completamente “quanto si genera nel setting”. Aspetto ben noto, che anche Aldo Carotenuto, da analista esperto, aveva con umiltà evidenziato.

Nelle sue pagine l’autore ha inteso raffigurare “in commistione perpetua, trasognata, conscio e inconscio, realtà e abisso psichico. “Per me (spiega Selvaggi) è stato un test, un provino letterario di un ipotetico romanzo fantastico, sdrammatizzante, psichedelico e ridanciano a tratti, che sto sviluppando in questi mesi sulle stesse tematiche, sul viaggio psicoterapeutico, e che si è già evoluto, negli scritti che spargo confusamente per casa, in una colata lavica che è l’esplosione vulcanica delle profondità dell’amore. L’amore che è tutta la vita.”

D: Come ha suddiviso gli svolgimenti dei due racconti speculari su Vittorio Santo e la moglie Antonia Sinistra?

R: Anche qui ha deciso l’intuito, a prescindere dai risultati. Cioè la scelta di un lampo. Il primo racconto, dalla parte di lui, celebra i principi filosofici, quindi religiosi, morali, nonché della tradizione letteraria della ricerca della propria vera natura, che è il bene, bene in sé. E’ una tirata, in qualche passo struggente, nel dolore su questa necessità inderogabile. Il secondo racconto, dalla parte di lei, disvela, o rilegge, o reinterpreta questo percorso di filosofie, di pensiero greco puro, nell’iper-realtà del percorso psicoterapeutico, svelato per metafore: la segretaria contabile, la Cosa rocciosa del fumetto Fantastici Quattro della Marvel che è il terapeuta, la Donna Invisibile psichiatra del lavoro in tandem, e altre trovate irreali. Che francamente non so quanto valgano. Ma sono state partorite così. Amen.

D: I lettori saranno un po’ sorpresi di scoprire il Selvaggi che emerge attraverso questo libro che seduce e travolge, come sempre, ma è anche in grado di cogliere la contraddittoria realtà della vita, mediante un tocco di humour “elegante”, mai sovraccarico, e dispensato “con mano leggera”…

R: Sì. E’ accaduta un’altra cosa abbastanza impressionante, per quanto mi riguarda. Non appena ho iniziato a buttar giù, tanto per, a caso, e quando capitava, senza un progetto editoriale concordato, che poi non so affatto se condurrò a termine, anzi, pagine del suddetto futuro romanzo psicanalitico, irrefrenabili come gorghi di fiume, meglio, come onde che si accavallano e si richiamano senza soluzione di continuità, ho assistito a una mutazione evidente del mio stile di scrittura. Che ho riconosciuto, o ammesso, soltanto dopo molte settimane. O mesi. E che corrisponde magari al caos aurorale di una mutazione interiore vitale che evidentemente si era già attivata. Con una rapidità spaventosa. Totalmente imprevista, completamente inattesa dal mio intuito, pur solitamente sviluppato fino al femminino, o quasi.

D: Quindi, in sostanza, ne arguiamo che è in atto un tradimento di Selvaggi, nei confronti di Selvaggi, o è un’apertura verso un nuovo, decisamente più interessante linguaggio espressivo?

R: E’ ambedue le cose. Il linguaggio e la vita interiore – lo insegnate voi – sono avventure che si vivono insieme…

La conoscenza dell’anima, al di là dei luoghi in cui si attua, tutti degni di rispetto e attenzione, diventa una sorta di “visione” che muove dal desiderio, dalla brama, e indica, anche mediante il suo equivalente mitologico, Pothos, l’insaziabile anelito verso ciò che è remoto, distante e sconosciuto. La psiche è maestosa, e la sua infinita gamma espressiva non si esaurisce certo nel setting analitico. Così come i professionisti delle cure, o i filosofi, gli scrittori e tutti quelli che amano muoversi in territori sconfinati, non possono essere valutati secondo criteri “assoluti”, o essere trasferiti “in massa” dalle sacre soglie del paradiso a quelle dell’inferno o viceversa.

Forse è anche possibile credere nelle differenze, le sole che rendono individui, nel senso pieno del termine. Ogni esperienza d’analisi, così come ogni altra esperienza personale di rielaborazione delle immagini interiori, è un modo di entrare in relazione con l’identità e l’alterità, non il modo. Chiunque si accosti alla realtà dell’anima sa che è essa è, al pari dell’amore, vita e morte, dannazione e redenzione, contemporaneamente, e le sue immagini non fanno che riflettere quella “verità” che la ragione non sempre è in grado di accogliere…E alla fine…“si ama il proprio desiderio, e non quel che si è desiderato”…(Al di là del bene e del male, Friedrich Nietzsche)

Marialuisa Vallino

NOTE:

[1] Come spiegano gli autori del libro “Ultimo desiderio”, edito da Gelsorosso, Bari, 2013 (info@gelsorosso.it)
[2] Anima e Animus
[3] Michele Marolla, Gli incontri “sangueelatte” e il toy boy
[4] Eva Clesis, La tragedia e la fretta
[5] Michele Monina, I capelli rossi di Elizabeth Siddal
[6] Gabriella Genisi, Lo sfiato prima della fine del mondo e Strategie matrimoniali di sopravvivenza
[7] Berarda Del Vecchio, La bella lavanderina
[8] Esiodo,”Teogonia”, a cura di Gaetano Arrighetti, BUR, Milano, XIII ed., 2004, note al testo, pag.138
La fragilità del dogma della famiglia

La fragilità del dogma della famiglia

La fragilità del dogma della famiglia

di Valeria Montaruli

Valeria Montaruli, Magistrato, si è occupata a lungo di procedimenti in materia di famiglia e persona. Per molti anni ha esercitato le funzioni di giudice in ambito penale. E’ stata inoltre giudice minorile. Ha nel tempo collaborato con alcune riviste giuridiche, pubblicando diversi articoli e note a sentenze. E’ stata, nell’ultimo triennio, relatrice in numerosi incontri di studio di diritto minorile, in materia di procedimenti de potestatemobbing familiare e profili relativi alla tutela civile. In particolare, ha coordinato gruppi di studio in materia familiare e minorile presso il Consiglio Superiore della Magistratura, e nell’ambito della neo istituita Scuola della Magistratura. Ha svolto attività di docenza presso la Scuola di specializzazione nelle professioni legali dell’Università degli studi di Bari. E’ stata componente della Commissione d’esami per il concorso in magistratura. E’ autrice e co-autrice di varie opere monografiche, particolarmente in materia di responsabilità civile. Ha lavorato presso il Ministero della Giustizia -Ufficio legislativo-. Attualmente è Presidente del Tribunale per i Minorenni di Potenza.

Copertina libro

Copertina libro

Siamo abituati, per cultura e per tradizione, a dare per scontato il fondamento naturale dell’istituzione familiare. I padri costituenti, all’art. 29 della Carta Costituzionale, hanno dato una definizione sacrale della famiglia come ‘società naturale fondata sul matrimonio’. Lo stesso legislatore costituzionale ha poi ridimensionato l’assolutezza di tale affermazione nel successivo art. 30, laddove al terzo comma si garantisce ai figli nati fuori dal matrimonio tutela giuridica e sociale ‘compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima’, e al quarto comma si demanda alla legge ordinaria di ‘dettare le norme ed i limiti per la ricerca della paternità’. L’attenta riflessione degli studiosi di sociologia della famiglia, ben compendiata nell’ultimo volume di Chiara Saraceno, Coppie e famiglie – non è questione di natura, Feltrinelli, Milano, 2012, evidenzia come non c’è nulla di meno naturale della famiglia. In verità, famiglia e coppia sono tra le istituzioni sociali maggiormente oggetto di regolamentazione. Di conseguenza, i cliché culturali dominanti hanno insistito nel fondamento gius – naturalistico dell’istituzione familiare in chiave difensiva, al fine di sacralizzare l’istituzione fondante della società civile, che costituisce la cellula basilare dei rapporti socio – economici tra le persone. Tale regolamentazione fa da contrappeso alla tendenza disgregatrice insita nelle pulsioni istintuali e sessuali propri della natura umana. Eppure, nell’analizzare in senso geografico e diacronico le tipologie di organizzazione familiare che si sono succedute nei vari popoli e in diverse epoche, si evidenziano notevoli diversità, sicché il modello di famiglia nucleare, costituito dalla coppia genitoriale e dalla prole, costituisce una peculiarità originatasi in Occidente, in conseguenza della rivoluzione industriale, assolutamente non dotato di alcun crisma di universalità. Tale modello familiare, che ha il suo fulcro nella coppia coniugale, si declina in senso inverso rispetto ai modelli familiari tradizionali, nei quali i rapporti di parentela prevalgono sulla relazione di cooperazione e di affetto tra i coniugi. In altri termini, la maggiore tendenza al particolarismo è derivata dal maggior rilievo dell’affettività, come caratteristica specifica dei legami familiari, sia di convivenza e di parentela, man mano che questi vanno perdendo la loro funzione sociale. Il modello di famiglia contemporaneo è dunque connotato dal principio dell’individualismo ispirato ai criteri dell’autonomia e della parità tra i sessi, almeno sotto il profilo formale. Il progressivo prevalere della sfera delle aspirazioni individuali rispetto alle istanze collettive, si è manifestato sia in senso orizzontale, nei rapporti di coppia, che in senso verticale, nei rapporti tra diverse generazioni. Quanto al primo profilo, il processo di progressiva disgregazione della stabilità familiare si è innescato dall’insorgenza del mito dell’amore romantico, che è man mano  prevalso sulla funzione della famiglia come nucleo economico – produttivo. Poiché la cessazione dell’affectio fa venir meno la stessa ragion d’essere dell’unione coniugale, si è diffuso nella società occidentale l’istituto del divorzio, con la conseguente insorgenza di famiglie mono – genitoriali, famiglie ricostituite, famiglie multiple e famiglie di fatto. In conseguenza della nuova concezione del matrimonio e della crescente importanza del benessere della coppia, si è determinata una maggiore fragilità della famiglia legittima, laddove nei paesi avanzati non esiste più l’istituto della separazione per colpa, ma basta la dichiarazione unilaterale di intollerabilità della convivenza coniugale. Il secondo cambiamento è rappresentato dalla progressiva equiparazione della coppia di fatto alla coppia coniugale, nella misura in cui entrambe sono fondate sull’investimento affettivo reciproco. Il terzo cambiamento ha riguardato l’indebolimento dell’eterosessualità come unico fondamento di una relazione di coppia. Difatti, l’affetto reciproco fra due persone sussiste indipendentemente dal sesso dei medesimi. Si determina dunque un progressivo sganciamento tra la capacità riproduttiva della coppia e la validità della stessa. Analogo processo di erosione si è verificato in senso verticale, con riferimento ai rapporti genitoriali e di filiazione. La Saraceno afferma che figli o genitori si diventa in molti modi. Innanzitutto, la genitorialità è sganciata dalla consacrazione della famiglia legittima. È notizia di questi giorni la definitiva approvazione ed entrata in vigore del DDL unificato Mussolini, con l’emanazione della legge 10 dicembre 2012 n. 219, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 17 dicembre 2012, che ha introdotto nell’articolato relativo alla parificazione tra figli legittimi e naturali, del disegno di parificazione tra figli legittimi i figli naturali, destinata a incidere sui profili discriminatori tuttora sussistenti tra i due tipi di filiazione, in particolare la mancanza di rapporti tra il figlio naturale e i parenti del genitore che ha effettuato riconoscimento. Un profilo evolutivo ancora più accentuato attiene allo sganciamento della genitorialità rispetto alla generatività in senso biologico. Infatti, la trasformazione del bambino in figlio, non solo è un atto sociale fortemente regolato, ma implica un atto di riconoscimento e di accettazione. Tale sganciamento si verifica tipicamente con riferimento alla genitorialità adottiva, che ha come presupposto lo stato di abbandono del minore, e dunque l’accertata e irreversibile inadeguatezza dei genitori di esercitare il proprio ruolo. Tuttavia, in epoca recente, le tecniche di riproduzione assistita hanno allargato enormemente la possibilità di ‘fare un figlio’. Lo sganciamento rispetto al dato della generatività biologica diventa particolarmente evidente e stridente in caso di riproduzione assistita con donatore e o donatrice, che apre la possibilità di assumere un ruolo genitoriale alle persone sole e anche alle coppie genitoriali omosessuali. Ulteriori scenari, rispetto alla declinazione della maternità, sono stati aperti dalla maternità surrogata. Vi sono poi forme di multi – genitorialità nell’ambito delle famiglie ricomposte, che scaturiscono dallo scioglimento di precedenti nuclei familiari e dalla nascita di nuove famiglie, che determina una moltiplicazione di rapporti di parentela. Orbene, in un’epoca caratterizzata dall’accelerazione del cambiamento, che dalle rapide evoluzioni scientifiche e tecnologiche si riverberano sui fenomeni umani e sociali,  qual è la famiglia, il legislatore in primis e poi il giudice della persona e delle relazioni familiari sono chiamati ad un’importante sfida culturale. Spesso gli operatori sociali e giuridici sono anche inconsapevolmente condizionati da schemi relazionali cristallizzati, che di fatto sono stati travolti dalle ultime evoluzioni della società. Vi è dunque la tendenza ad ostacolare il cambiamento, a causa del rifiuto a comprenderlo, e ad arroccarsi su un nostalgico vagheggiamento di modelli di vita che sono ormai  nella nostra testa, e che l’evoluzione storica e sociale ha travolto. La grande sfida che l’operatore è chiamato ad accogliere è quella di governare il cambiamento, senza giudicarlo e contrastarlo. La rottura del nucleo familiare originario non costituisce di per sé una calamità per i figli, se le parti coinvolte sono capaci di corretta elaborazione delle vicende traumatiche. La genitorialità non è necessariamente legata alla riproduzione, ma alla comunione di affetti che si è capaci di instaurare con il minore e alla capacità di essere guida e punto di riferimento. Forse, dalla drammatizzazione dei rischi della PAS, sulla cui natura patologica molti studiosi avanzano dei dubbi, si potrà arrivare a rispettare e valorizzare la volontà del minore come soggetto autonomo, nonché capace di esprimersi e di operare delle scelte circa i soggetti con valenze genitoriali su cui investire. In tal modo, potranno evitarsi scelte traumatiche e coercitive per orientare le sue relazioni. Invero, si possono dunque acquisire, e spesso si acquisiscono, funzioni genitoriali nei confronti di figli biologicamente non propri. La famiglia diviene luogo di elezione, piuttosto che struttura cristallizzata. Così, anche la rigidità dei ruoli genitoriali dà luogo ad una nuova flessibilità. Dunque, non necessariamente il padre è chiamato a intervenire per rompere la simbiosi funzionale tra la madre il figlio, se la madre (soprattutto nelle famiglie mono- genitoriali) diviene anche punto di riferimento normativo e il padre riesce ad esercitare funzioni di cura e a trasmettere valori affettivi. In definitiva, l’operatore illuminato dev’essere in grado di comprendere e di accettare la complessità del mondo relazionale, alla base della famiglia. In tal senso, più che come arazzo statico – secondo la definizione della sociologa statunitense Barrie Thorne – che è il risultato dell’ intersecarsi di una molteplicità di dimensioni, colori e figli, la famiglia può essere vista come caleidoscopio, in cui la varietà dei colori e delle forme compongono continuamente forme diverse e duttili nella complessità del dinamismo esistenziale.

Valeria Montaruli

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