Crisi della famiglia e disgregazione dei ruoli

Crisi della famiglia e disgregazione dei ruoli.

 di Valeria Montaruli [1]

Paolo Caliari detto il Veronese (attr), “Ritratto di Famiglia”,1558. Palace of legion of honor, San Francisco.

Paolo Caliari detto il Veronese (attr), “Ritratto di Famiglia”,1558.
Palace of legion of honor, San Francisco.

 

1. L’allentamento dei vincoli di parentela della famiglia. La nascita della famiglia nucleare.

L’antropologia strutturale di Levi Strauss ha individuato i percorsi attraverso cui, nelle civiltà dell’uomo, le strutture di parentela determinano la nascita delle famiglie. In particolare, perché ci sia una famiglia, occorre che altre due rinuncino o donino un membro ciascuna, modificando così le relazioni tra coloro che hanno vincoli di sangue ed instaurando nuovi vincoli sociali e legali. Attraverso l’incrocio di questi vincoli, per costituirne di nuovi, si individuano un sistema di filiazione ovvero di appartenenza alle generazioni e un sistema di relazione tra persone. Determinanti sono in questa strutturazione i legami di appartenenza al sesso, attraverso cui si formano le linee di parentela più frequentemente in senso patrilineare, e meno frequentemente secondo una filiazione matrimoniale, dando così una regolamentazione agli scambi e alle reciprocità, ai diritti e ai doveri. A tal proposito, quanto alle strutture di genere ovvero alle posizioni che i due sessi occupano entro la parentela, le donne sono collocate al centro degli scambi e dunque assumono un importante compito di comunicazione e mediazione tra i gruppi, tra famiglie e linee di parentela, che si svolgono attraverso il matrimonio. Comunque, il collante delle appartenenze familiari tende ad essere garantito per il tramite delle donne nei rapporti tra donne (madri, figlie, sorelle) anche nell’ambito della parentela. Invero, da tutte le ricerche sociologiche, emerge la prevalenza del ruolo femminile nell’attivazione e nel mantenimento della rete parentale, sia con riferimento al flusso degli aiuti, che alla corrente degli affetti. Non è un caso che le grandi riunioni familiari avvengano a casa delle figure femminili di riferimento (madri, nonne). Anche gli uomini esprimono la propria affettività e continuità familiare nel legame con la madre. Ne consegue lo sviluppo di una divisione di ruoli che assegna alle donne compiti domestici di cura nell’ambito della rete familiare. Secondo l’interpretazione sociologica più accreditata di Parsons e di Bales, mentre la famiglia nel passato aveva origine nella parentela o in un patto tra parentele, essa se ne sarebbe progressivamente svincolata, sino a giungere all’epoca contemporanea, in cui essa sembra trarre origine da due individui. Nella concezione odierna, la parentela sembra nascere da questo legame piuttosto che preesistergli. Così come l’industrializzazione è stata ritenuta la causa principale del diffondersi del gruppo domestico nucleare, essa ha comportato, secondo Parsons, anche il depotenziamento della parentela. Nella società contemporanea occidentale, a partire dagli anni ‘40 e ‘50, in cui si impongono trionfalisticamente i principi della democrazia, della scienza e della tecnologia, i legami di parentela vengono visti come un fattore frenante e disfunzionale, in quanto non favorirebbero l’autonomia individuale e le scelte di tipo particolaristico. Nei gruppi socialmente e professionalmente più evoluti, la maggiore tendenza al particolarismo è accentuata dall’accresciuto rilievo dell’affettività, come caratteristica specifica dei legami familiari, sia di convivenza che di parentela, man mano che questi vanno perdendo la loro funzione sociale. Il modello di famiglia contemporaneo è dunque connotato dal principio dell’individualismo, ispirato ai criteri dell’autonomia e della parità tra i sessi, almeno sotto il profilo formale. Tali caratteri hanno come conseguenza la strutturazione in modo diversificato dei nuclei familiari, comunque dotati di parità e di riconoscimento giuridico, con attribuzione di ampia capacità di autoregolamentazione alla coppia. Ne consegue che, accanto alle famiglie tradizionali fondate sulla gerarchia di status, vi sono famiglie nucleari, famiglie estese, famiglie monogenitoriali, famiglie ricomposte, che impongono una regolamentazione giuridica che a volte, essendo al principio, è di imperfetta realizzazione, sicché anche la contrattualità della relazione di coppia resta altrettanto imperfettamente realizzata [2]. In verità, la forma organizzativa della famiglia nucleare coniugale, nell’ambito di una società industrializzata e democratica, esprimeva il rapporto di interdipendenza tra particolarismo familiare e universalismo del libero cittadino, al centro di tutti gli scambi sociali. In tal modo, la libera circolazione e mobilità degli individui si affermava attraverso la supremazia del capofamiglia maschio, sia nei rapporti con l’altro sesso sia nei rapporti tra le generazioni [3]. Invero, il divenire maschi adulti comporta potenzialmente un conflitto tra le generazioni e, all’interno dello stesso gruppo generazionale, tra i fratelli. Tale potenzialità conflittuale potrà essere composta soltanto attraverso la formazione di un’altra famiglia, che stabilisca con quella di origine legami di affetto, evitando dipendenze economiche e sociali. Tale considerazione vale, a maggior ragione, per la parentela più larga, definita non più da vincoli di scambio e di controllo, ma dalla sola affettività. Dunque si rafforza, nei rapporti tra le generazioni, lo scambio affettivo, piuttosto che il legame fondato sul controllo della trasmissione patrimoniale o sulla doverosità dell’obbedienza e del rispetto. 

2. Le trasformazioni del matrimonio e della coppia. La nascita del mito dell’amore romantico come principio disgregatore.

Dai citati studi svolti in materia di sociologia della famiglia da Saraceno e Naldini, emerge che il matrimonio ha avuto molteplici funzioni sociali, di aggregazione tra culture e gruppi di appartenenza, di legittimazione della filiazione, di controllo della sessualità e delle alleanze tra individui. Le suddette finalità di regolamentazione sociale hanno definito i rapporti e le competenze tra i sessi, nonché la stessa identità di genere. Si è già visto come, nell’impostazione dell’antropologia strutturale di Levi Strauss, il matrimonio aveva soprattutto una funzione di scambio tra i gruppi sociali, che si realizzava attraverso la circolazione delle donne. Tale scambio tra gruppi diversi veniva peraltro garantito attraverso il tabù dell’incesto, che consentiva la costruzione, oltre che di legami di parentela, anche di una vera e propria società umana. Il matrimonio veniva dunque utilizzato come strumento di strategie di alleanza, entro le quali la coppia aveva una posizione strumentale rispetto alle relazioni tra i gruppi e le famiglie. In questo scenario, il matrimonio e la ripartizione dei ruoli tra i sessi assumono una rilevanza centrale nell’attribuzione ai singoli di una collocazione all’interno della struttura sociale di genere. Attraverso il matrimonio, inoltre, data la mancanza di certezza biologica della paternità, la stessa viene ancorata a criteri legali, sicché si svolge il controllo sociale e giuridico della fecondità della donna. La stessa parola latina matrimonium fa riferimento a questo mutamento di status della donna, che assume la condizione di madre. Tanto evidenzia la finalità generativa normalmente attribuita al matrimonio. In effetti, in molte culture, il medesimo non era compiuto fino a quando la donna non generava, e la stessa in caso di sterilità poteva essere ripudiata. Anche nell’ambito del diritto canonico, come del diritto civile, l’infertilità, sia come impotentia coeundi che generandi, costituisce un vizio genetico del vincolo matrimoniale. Nella storia nella cultura europea, a partire dal dodicesimo secolo, la Chiesa, attraverso la costruzione di diritto canonico del matrimonio come fondato sull’integrità del consenso tra i coniugi, esercita di fatto un controllo sulle strategie matrimoniali, in potenziale conflitto con le alleanze familiari e parentali. Il controllo delle famiglie viene comunque in qualche misura mantenuto attraverso l’elevazione dell’età in cui i nubendi potevano liberamente esprimere il proprio consenso (30 anni per gli uomini di 25 anni per le donne), dovendosi in età inferiore ricorrersi al consenso dei genitori. Si afferma dunque un modello di matrimonio fondato sulla irreversibilità del consenso e soprattutto sulla irreversibilità della dipendenza della moglie rispetto al marito. Mentre il maschio diviene capofamiglia, nel momento in cui si è svincolato dalla tutela parentale, la femmina può esercitare formalmente la propria libertà solo all’atto del passaggio dalla tutela del padre alla tutela del marito. La famiglia veniva dunque a costituire un’unità produttiva. L’uomo e la donna contraevano matrimonio quando erano in grado di apportare risorse nella convivenza familiare. Ciò comportava che non tutti potevano sposarsi, ed è noto che il destino dei figli cadetti e delle figlie senza dote, era quello di non poter accedere alla scelta matrimoniale. Il consolidamento dei gruppi sociali, realizzato attraverso lo strumento del matrimonio, si fondava essenzialmente sulla differenza sessuale, che si articolava attraverso una suddivisione dei compiti, generando rapporti di interdipendenza tra i due sessi, fondati sulla subalternità del femminile rispetto al maschile. Solo nel ventesimo secolo sembrano sgretolarsi le strategie della parentela ed i matrimoni paiono nascere in modo spontaneo, pur se comunque sopravvivono forme meno appariscenti di controllo sociale delle relazioni tra i sessi. La concezione dei rapporti d’amore tra i coniugi nelle società del passato, può essere rintracciata in alcuni modelli culturali e letterari, per esempio nella letteratura relativa all’amore cortese e negli autori toscani Boccaccio e Petrarca. E’ tuttavia controverso se essi si producessero poi in vissuti reali ovvero rimanessero una mera costruzione ideale e culturale. In ogni caso, gli storici generalmente collocano la nascita della dimensione affettiva nei rapporti di coppia, e in genere nei rapporti familiari, nella seconda metà del ‘700, con la nascita del capitalismo industriale, in relazione alla progressiva affermazione di una dimensione più individualistica, legata all’avvento della cultura illuministica e alla maggiore sensibilità ai diritti umani e alle libertà. Nella società tradizionale, la scelta del coniuge era legata a strategie che avevano il duplice presupposto dell’omogamia, ovvero ci si sposava con una persona socialmente simile, e dell’esogamia, ovvero occorreva uscire dal gruppo di appartenenza, per stabilire alleanze con un gruppo diverso. Tali equilibri hanno subito significative modifiche, a seguito della maggiore mobilità geografica e sociale, consentita dal fenomeno dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione della seconda metà dell’ottocento. Essa ha avuto come conseguenza l’ampliamento dei mercati matrimoniali, sicché i criteri di somiglianza sono diventati più elastici. Ma la vera trasformazione del matrimonio e delle strutture familiari si è avuta con la diffusione, già nel secolo scorso, ma più incisivamente nella prima metà di questo secolo, del mito dell’amore romantico come fondante il matrimonio. Con l’accrescimento del peso specifico dell’individuo nella società e nella sua articolazione familiare, si è avvertita l’importanza della dimensione sentimentale-amorosa nel rapporto coniugale. Si è verificata una rivoluzione copernicana nei valori, a fondamento dei legami familiari e interpersonali: mentre nelle società tradizionali l’amore è percepito come potenzialmente pericoloso e distruttivo delle strategie familiari e della stessa stabilità del matrimonio, sicché un tempo le scelte matrimoniali erano pilotate dai genitori, nella società contemporanea tale scelta è liberamente esercitata dai coniugi. Ne deriva, dunque, una ‘socializzazione’ dei giovani ad innamorarsi e a farsi guidare da questo sentimento nella scelta del partner. Anche se in modo più sottile, comunque il controllo delle famiglie di origine si esercita, indirizzando le frequentazioni dei giovani verso ambienti in cui potenzialmente potranno incontrare la persona idonea a contrarre un buon matrimonio. Naturalmente, l’ideologia dell’amore romantico come fonte di legittimazione del matrimonio contemporaneo, altera profondamente e indebolisce le tradizionali strutture della parentela. La coppia, infatti, acquisisce un’autonomia spaziale, economica e decisionale rispetto alla parentela e può concentrarsi esclusivamente sul proprio rapporto. Il codice dell’amore romantico fonda un processo di autonomizzazione dei figli rispetto ai genitori e alle famiglie di origine, consentendo ai giovani una libertà che non avevano mai sperimentato e così favorendo fenomeni di innovazione e di eversione sociale. Tuttavia, non deve trarre in inganno il raggiungimento di un modello di relazione di coppia che, sul piano affettivo, presuppone reciprocità e scambio. In realtà, l’ideologia dell’intimità e dell’unità della coppia sortisce l’effetto di facilitare l’affermarsi dell’uomo nel mondo sociale e del lavoro, mentre subordina l’identità della donna a quella di moglie e di madre e ne indebolisce la possibilità di intrattenere relazioni sociali autonome. Nel secolo scorso, lo spazio di affettività della coppia viene comunque scisso dall’erotismo e dalla sessualità e ricondotto al comune progetto educativo ed affettivo nei confronti dei figli. La donna è al centro di questo progetto, viene protetta da contaminazioni esterne di tipo corporeo e confinata nello spazio domestico. Questo modello familiare si traduce nell’immaginario cattolico della sposa come madre e nell’affermarsi del duplice valore della verginità prematrimoniale e della castità matrimoniale, che rappresenta una strategia di disciplina del mondo maschile e di controllo della procreazione. Solo successivamente, con l’avvento della società borghese, si verifica un secondo passaggio. L’unità di coppia diviene anche unità erotica, sicché la sfera dell’affettività diviene il terreno comune della relazione di coppia, mentre per il resto uomo e donna continuano a vivere in sfere assai differenziate. Tuttavia, il mito dell’amore romantico, se da un lato ha rafforzato la coppia rispetto alle relazioni di parentela, dall’altro rappresenta il principio disgregatore dell’istituzione matrimoniale, e particolarmente della sua irreversibilità. Infatti, affidando la durata del matrimonio alla sopravvivenza dell’amore e dunque alla connotazione paritaria insita in questo sentimento, si introduce l’elemento della scelta e quindi la possibilità della rottura. Il nuovo modello di matrimonio è dunque negoziale e non fusionale. Il complesso dell’amore romantico, con la conseguente crescente autonomia nei comportamenti e nelle scelte nelle generazioni più giovani, unitamente al processo dell’emancipazione femminile, hanno determinato un rilevante cambiamento di fisionomia dell’istituzione matrimoniale. Esso si traduce in una riduzione del tasso di nuzialità e in un ritardo nell’età delle prime nozze, cui corrisponde invece una tendenza all’abbassamento dell’inizio della vita sessuale, sicché si scinde il legame tradizionalmente riconosciuto tra matrimonio, sessualità e riproduzione. Tale rivoluzione culturale ha avuto il suo culmine negli anni ‘60, attraverso il movimento studentesco e delle donne, che hanno segnato una modifica radicale dei comportamenti e delle relazioni tra i sessi. A seguito della rivoluzione sessuale di quegli anni, l’innamoramento diviene da solo elemento di legittimazione per l’esercizio della sessualità, sicché essa non passa più attraverso il vincolo del matrimonio. In altri termini, l’amore e il sesso costituiscono una base della coppia anche a prescindere dal matrimonio. Ciò incentiva il fenomeno delle convivenze e delle coppie di fatto, anche di carattere temporaneo o di breve durata. Si osserva anche una trasformazione della concezione del matrimonio che si fonda su una visione egualitaria della coppia, sicché il rapporto a due non è un dato acquisito, ma viene continuamente riscritto e rinegoziato. Tale processo di democratizzazione della vita privata, ha condotto alla centralità dell’autonomia della persona. La negoziazione degli equilibri interni alla coppia deve fare i conti non solo con le dinamiche intrinseche alla coppia stessa, ma soprattutto con la presenza di fattori esterni, sicché essi possono in breve tempo subire radicali processi di trasformazione. Come conseguenza dell’emancipazione femminile, si diffonde un modello egualitario di coppia, fondato sul dialogo e sulla negoziazione, piuttosto che sulla funzionalità. Le suddette trasformazioni delle relazioni interpersonali nella società contemporanea determinano, peraltro, la coesistenza di diversi modelli di matrimonio, da quelli più tradizionali maggiormente basati sulla fusionalità, a quelli in cui prevale il carattere simmetrico della negoziazione. Peraltro, la centralità del rapporto di coppia e di tutte le implicazioni ad esso inerenti, piuttosto che fondarsi sulla dimensione sociale del matrimonio, si traduce, in epoca contemporanea, nel sorgere di una pluralità di  modelli di matrimonio e di coppia. Parallelamente, a seguito del cambiamento del ruolo della donna, della riduzione della natalità, dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento delle famiglie monogenitoriali, si determina il fenomeno della destrutturazione della famiglia nucleare [4]. Si diffonde un fenomeno di democratizzazione della vita privata, che presuppone l’autonomia della persona come valore fondante. In generale, si assiste ad un processo di secolarizzazione del matrimonio, con un conseguente aumento dei matrimoni con rito civile. Tale istituzione viene infatti viene sempre meno ricondotto ad una dimensione meta- individuale e meta – familiare, come dimostra il nuovo diritto di famiglia del 1975, preceduto dalla legge sul divorzio e dal relativo referendum, con i quali si è introdotta anche in Italia la possibilità di sciogliere il vincolo matrimoniale. Il nuovo diritto di famiglia si fonda su un modello di matrimonio essenzialmente simmetrico, in cui non esiste più il capo famiglia e ai sensi dell’articolo 143 cod. civ., entrambi i coniugi concordano l’indirizzo della vita familiare e stabiliscono di comune accordo la residenza familiare. Un altro rilevante fenomeno cui si è fatto riferimento, è l’aumento delle convivenze di fatto, conseguente al mutamento dei rapporti tra le generazioni e alla riduzione del potere di controllo dei genitori sui figli. Le convivenze di fatto possono anche avere durata temporanea e costituire una fase giovanile che prelude al matrimonio. Accanto alle convivenze giovanili vi sono tuttavia anche le convivenze tra adulti, spesso con dei figli. In Italia, soprattutto al nord, si è verificato un sensibile aumento delle coppie di fatto, che sta producendo rilevanti effetti anche di carattere giuridico, in quanto, compatibilmente con la salvaguardia della libertà delle parti, vengono previsti dei meccanismi di protezione per la prole, nell’ottica di un’equiparazione della posizione dei figli naturali rispetto a quella dei figli legittimi. Orbene, il comune denominatore delle convivenze di fatto è comunque legato alla minore stabilità delle stesse rispetto a quelle matrimoniali. Esse caratterizzano soprattutto il passaggio dall’età giovanile all’età adulta, e in tal caso hanno connotazioni fortemente negoziali ovvero si formano in età adulta, tra persone che escono da precedenti esperienze matrimoniali. Un’ ulteriore conseguenza è poi che queste coppie non hanno per loro stessa scelta carattere di tutela delle parti deboli, che in questo tipo di rapporto finiscono per non trovare alcuna protezione istituzionale.

3. Il dilagare della crisi del matrimonio e il sorpasso dei single.

Alla connotazione fortemente egualitaria e negoziale dei rapporti coniugali in epoca contemporanea, consegue la legittimazione della diffusione del divorzio, che costituisce una valvola di sfogo per le tensioni che inevitabilmente sorgono dalla convivenza tra due persone. Mentre tradizionalmente, la causa principe di scioglimento del matrimonio era individuata nella sterilità della donna o nell’infedeltà, perlopiù della donna, nelle società contemporanee possono valere ragioni meno specifiche, fondate sull’incompatibilità, sulla mancanza d’amore e così via, con progressiva abolizione degli istituti di separazione per colpa e residualità delle pronunce di addebito. Peraltro, l’incremento delle separazioni e dei divorzi è anche connesso al sensibile allungamento della vita media, che da un lato aumenta le tensioni insite nella vita di coppia e dall’altro incentiva l’esigenza e la volontà di cambiamento. Lo scioglimento del matrimonio o la separazione nella coppia contemporanea hanno inoltre una rilevante conseguenza sulla rete sociale della coppia, che è vista come unità affettiva e relazionale. In tutti i paesi occidentali, statisticamente dalla fine degli anni ’60 – inizio anni ‘70, si verifica un aumento esponenziale delle separazioni e dei divorzi. All’aumento dei casi di divorzio corrisponde inevitabilmente una diminuzione della durata dei matrimoni. Da una rilevazione dell’Istat, relativa alle separazioni e ai divorzi condotta presso le cancellerie di 165 tribunali civili, è emerso che nel 2011 le separazioni sono state 88.797 e i divorzi sono stati 53.806, con un notevole incremento delle separazioni e una lieve riduzione dei divorzi; nel 2009 le separazioni sono state 85.945 e i divorzi 54.456, con un incremento rispettivamente del 2,1% e dello 0,2% rispetto all’anno precedente. La recente flessione del numero dei divorzi pare imputabile alla crisi economica o a fenomeni di adattamento a situazioni non giuridicamente consacrate, mentre continua ad aumentare il fenomeno della disgregazione dei nuclei familiari, come si evidenzia nell’incremento delle separazioni. La durata media del matrimonio, al momento dell’iscrizione a ruolo del procedimento, è risultata pari a 15 anni per le separazioni e a 18 anni per i divorzi. L’età media della separazione è di circa 45 anni per i mariti e 41 anni per le mogli; in caso di divorzio raggiunge rispettivamente i 47 e 43 anni. Questi valori sono aumentati negli anni, sia per una drastica diminuzione delle separazioni sotto i trent’anni – in gran parte effetto della posticipazione delle nozze verso età più mature – sia per un aumento delle separazioni con almeno uno sposo ultrasessantenne. Un ulteriore dato interessante è quello per cui nel 2011, per il 19,1% delle separazioni è previsto un assegno mensile per il coniuge (nel 98% dei casi corrisposto dal marito). Tale quota è più alta al Sud e nelle Isole (rispettivamente 24% e 22,1%), mentre nel Nord si attesta al 16%. Gli importi dell’assegno mensile sono, al contrario, mediamente più elevati al Nord (562,4 euro) che nel resto del Paese (514,7 euro). Peraltro, la destabilizzazione del rapporto matrimoniale si verifica in tutte le fasce generazionali e dunque nell’ambito di diverse tipologie di matrimonio. All’incremento del tasso di divorzio si accompagna, come concausa e nello stesso tempo come effetto, una legislazione più ampia e più permissiva rispetto al divorzio. Per contro, al sensibile aumento delle separazioni e dei divorzi e dunque dei fattori di disgregazione delle famiglie, corrisponde una notevole riduzione del numero dei matrimoni. In particolare, a livello nazionale, risulta che nel 2005 furono celebrati 247.740 matrimoni, che si sono ridotti a 230.613 nel 2009, particolarmente nel Centro- Nord. Questo trend ha avuto una parziale inversione, atteso che nel 2012 sono stati celebrati 207.138 matrimoni ovvero 2308 in più del 2011. A livello europeo l’Italia rappresenta un’anomalia, atteso che a fronte di un aumento esponenziale delle separazioni coniugali, corrisponde un numero ridotto di divorzi. Soprattutto nelle regioni meridionali, la separazione e il divorzio sono diffusi nelle classi più elevate, dove è maggiore la capacità di gestione della conflittualità rispetto alle classi sociali più modeste. Nel trend dell’incremento delle separazioni e dei divorzi è significativo il diffondersi di una mentalità che antepone il benessere individuale nel rapporto coniugale, rispetto ai valori esaltati nel passato, tra cui quello del sacrificio di una delle due parti, normalmente la donna, nel rapporto coniugale e nella vita familiare. Ciò spiega anche perché la donna si fa normalmente promotrice delle istanze di separazione, soprattutto allorquando ha una propria autonomia professionale. È pur vero che l’incremento delle rotture dei nuclei familiari viene indicato come una delle principali cause di povertà delle donne e dei bambini. Una delle cause di instabilità dei rapporti coniugali viene individuata nella mancata adesione ai modelli tradizionali di ripartizione dei ruoli e dei compiti tra i sessi. Sebbene le donne, come spesso accade, siano parte debole del rapporto, continuano a pagare un prezzo altissimo in termini di debolezza economica, tenuto anche conto del fatto che su di esse continua a gravare l’onere della crescita e dell’educazione dei figli. Tuttavia, in un’ottica maggiormente negoziale e libertaria della vita coniugale, i rischi di impoverimento non scoraggiano un rilevante numero di donne, pur con scarse possibilità reddituali, ad intraprendere la strada della separazione. Non solo, ma un recente fenomeno che accomuna i paesi occidentali è quello della contrazione del numero dei matrimoni. Negli USA la percentuale dei single ha sorpassato per la prima volta quella degli sposati: dal 45,6% al 44, 9%. Così, la percentuale continentale è scesa dal 5,1 al 4.9 ogni mille abitanti nel giro di dieci anni. Il giurista americano Posner, partendo dal dato che negli USA solo i 2/3 dei matrimoni durano più di dieci anni e il 40% dei figli nascono fuori dal matrimonio, spiega che il declino della mortalità infantile e l’aumento della possibilità di impiego delle donne hanno ridotto la domanda di bambini e innalzato l’età media del matrimonio, portando così alla riduzione del numero degli stessi matrimoni [5]. Una chiave di lettura di questo fenomeno viene ricondotta alla crescente emancipazione della donna, alla luce della tesi post-strutturalista, stando alla quale l’istituzione del matrimonio è stata funzionale al predominio maschile sulla donna, utilizzata come strumento di riproduzione e al suo controllo. Secondo l’interpretazione della sociologa Saraceno, il visibile calo dei matrimoni negli Stati Uniti, è dovuto in larga misura alla perdita di forza sociale di tale istituzione. Essa infatti non è più necessaria né per convivere come coppia né per procreare, e non costituisce più una modalità privilegiata di collocazione sociale della donna, atteso che la facilità dei divorzi ne indebolisce tale funzione di garanzia. Sempre meno lo status della donna dipende da quello del marito, pur se anche in tale Paese la parità effettiva tra i sessi non è stata ancora raggiunta e, perlomeno nelle professioni apicali, continua ad esistere il cosiddetto ‘soffitto di cristallo’. In Italia si è sviluppato un fenomeno particolare, costituito dal ritardo con cui vengono celebrati i matrimoni, sicché la generazione dei giovani di oggi è stata definita ‘generazione del rinvio’. Ciò è legato all’endemica difficoltà delle attuali generazioni, potenzialmente disponibili sul mercato del lavoro, a trovare in esso una collocazione. Un ulteriore aspetto è la diffusione delle convivenze di fatto, non come soluzione definitiva, ma come nuova tappa della vita di coppia, prima di sposarsi e dunque come alternativa temporanea al matrimonio stesso. In particolare, l’esperienza delle coppie di fatto sta trovando grande diffusione nel centro-nord, come dimostra l’elevato numero di procedimenti ai sensi dell’articolo 317 bis cod. civ. (relativi ai figli di genitori non coniugati), pendenti davanti ai Tribunali per i Minorenni settentrionali. Invero, sia tali difficoltà sia il fatto che in Italia la divisione del lavoro è ancora fondata su differenze di genere, conduce i giovani a cercare, sia pure in via transitoria, delle forme alternative di rapporti di coppia, istituzionalmente più leggere. In definitiva, i significativi mutamenti che si sono verificati nelle società occidentali circa i rapporti tra i sessi e il ruolo sociale delle donne, hanno determinato un depotenziamento dell’istituto del matrimonio come fondamento dell’ormai tramontata famiglia nucleare, fondata come si è già visto, sull’affermazione della parte maschile.

4. L’evoluzione normativa in materia di separazione e divorzio – riforma dell’affidamento condiviso. 

Negli ultimi trent’anni, in tutto il mondo occidentale si è verificato un aumento esponenziale della rottura delle unioni coniugali, come conseguenza della modifica della norma tradizionale che prevedeva l’indissolubilità del matrimonio e come affermazione di una norma sociale che preveda l’autodeterminazione della coppia, privilegiando la soggettività degli intimi desideri dei suoi componenti [6]. Il divorzio è stato introdotto nelle legislazioni europee in cui non era ancora stato ammesso, ivi compresa l’Italia, ed è stato dappertutto reso più rapido e più facile: sono stati abbreviati i termini, sono state introdotte forme di divorzio consensuale, è stato aumentato il potere di autodeterminazione delle parti, è stata abolita la concezione del divorzio come conseguenza di un comportamento colpevole di una delle parti, in quanto contrario ai doveri matrimoniali. Nell’ultimo secolo il regime giuridico della famiglia ha attraversato rilevanti trasformazioni. Nel secolo scorso, unico esercente la potestà sui figli era il padre, capo indiscusso della famiglia patriarcale ed unico deputato a provvedere alla buona educazione ed istruzione dei figli. Con la riforma del 1975, si è introdotta la diversa visione della parità ai coniugi e dunque le parti si sono invertite, nel senso che da allora i figli sono stati affidati prevalentemente alla madre, sulla base di un giudizio generalizzato della maggiore idoneità della figura materna a farsi carico dei bisogni dei figli. Tale orientamento si fondava su una visione arcaica della famiglia, concepita secondo ruoli genitoriali predeterminati, che non teneva conto della crescente autonomia conquistata dalla donna e del maggiore inserimento della stessa nel mondo del lavoro. D’altra parte, l’affidamento monogenitoriale, previsto dal vecchio articolo 155 cod. civ., consentiva alla madre di farne un uso strumentale per restringere gli spazi di partecipazione del padre alla vita dei figli. Il padre, attraverso la consueta regolamentazione del diritto di visita, veniva relegato al ruolo di genitore del tempo libero, compagno di gioco del figlio, con conseguente perdita di autorevolezza del suo ruolo e della sua tradizionale funzione educativa. Nel 2006 in Italia si è data attuazione al principio della bigenitorialità, già da tempo espresso dalle convenzioni internazionali, con l’entrata in vigore della Legge 8 febbraio 2006, n. 54, Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, che ha sancito il diritto del minore a conservare un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori,  prevedendo una nuova disciplina della potestà genitoriale e dell’affidamento, improntata alla condivisione delle responsabilità tra i genitori. Nell’ambito di tale disciplina, non viene più preso in considerazione il solo profilo attinente alla crisi della coppia coniugale, e dunque la gestione (di rilievo meramente civilistico) dei rapporti controversi tra coniugi, ma diventa centrale il profilo di carattere pubblicistico relativo alla tutela dell’interesse per una crescita serena ed equilibrata dei figli minori. In quest’ottica, la posizione del figlio di genitori separati o separandi viene posta su un piano del tutto diverso da quella dei genitori, e conseguentemente viene enunciato l’importante principio secondo cui il figlio ha il diritto di mantenere un rapporto con entrambi i genitori. La sempre maggiore considerazione dei diritti del fanciullo, che ha avuto impulso anche a seguito dell’evoluzione della legislazione internazionale, è sfociata dunque nella consacrazione normativa del principio della bigenitorialità, che costituisce un diritto del figlio a conservare la presenza di entrambi i genitori nella sua vita. Conseguentemente, la potestà, che più correttamente viene oggi denominata responsabilità, non è più strutturata come un insieme di poteri che sono attribuiti ai genitori per realizzare la funzione formativa ed educativa del figlio, ma ora i figli sono diventati protagonisti della vita familiare, titolari di diritti, mentre i genitori sono solo strumenti per adempiere ai doveri nei confronti della prole [7]. A distanza di otto anni dall’entrata in vigore della legge sull’affidamento condiviso, si riscontra un aumento delle richieste di affidamento condiviso e dei provvedimenti emessi in tal senso, anche se persiste l’asimmetria del carico di lavoro familiare, che grava sulle donne per il 76%, con un lieve calo delle coppie in cui la donna, soprattutto al sud, lavora ed è laureata. Alla persistenza di una forte disuguaglianza di genere, consegue che l’affidamento condiviso continua ad essere sovente un mero dato formale, cui non corrisponde una reale condivisione delle responsabilità e degli oneri genitoriali. Gli studi evidenziano peraltro l’accrescersi dell’importanza della figura del genitore sociale, sicché il vero padre diventa il nuovo convivente della donna. A ciò consegue la rarefazione del ruolo del padre biologico, che dipende da una maggiore difficoltà del medesimo nell’assunzione dei compiti genitoriali, dall’assenza della mediazione della figura materna, da difficoltà di conciliare gli impegni del padre con la nuova vita dei figli, e nei casi più drammatici, da deliberate strategie poste in essere dalla madre per sabotare i rapporti tra i figli e l’altro genitore. Spesso tuttavia i padri separati sono assenti per propria scelta dalla vita dei figli. Solo un’esigua minoranza di padri si occupa attivamente della cura primaria dei figli, anche se è in atto un trend positivo per cui sta aumentando la frequenza della relazione tra padri e figli. Sta inoltre cambiando il ruolo del padre, nel senso che è attualmente più improntato a valori di tipo affettivo. Sta dunque sorgendo, seppure ancora in termini numericamente limitati, una nuova generazione di padri, che costituiscono una sorta di ‘avanguardia della rivoluzione maschile’, come la definisce R. Berardini De Pace. Tale rivoluzione è molto di là da compiersi ed è limitata dunque a frange ancora marginali, essendo comunque ispirata la nostra società ancora ad una netta ripartizione dei ruoli genitoriali tra padri e madri. La legge sull’affidamento condiviso rappresenta in definitiva un caso in cui l’evoluzione normativa è più avanzata rispetto a quella del costume sociale. Infatti, la bigenitorialità, intesa come diritto del figlio ad avere la presenza di due genitori della sua vita, anche a seguito della separazione coniugale, non appartiene ancora alla nostra cultura diffusa e la pressione giudiziaria non basta ancora a determinare un radicale cambiamento del costume sociale. Poiché l’attuazione di questa legge ha deluso quei padri che sentono frustrante la loro marginalizzazione rispetto alla crescita dei figli, sono in atto dei movimenti di pensiero che mirano a introdurre previsioni più radicali al fine di dare un’attuazione più rigorosa al principio della bigenitorialità. Si fa in particolare riferimento al ddl  957/10, altrimenti detto affidamento condiviso bis o affidamento paritetico, che mira a stabilire un tempo di permanenza del figlio tendenzialmente equivalente presso entrambi i genitori, con fissazione per il medesimo di una doppia residenza presso ciascuno dei genitori. Tale radicalizzazione non manca di sollevare delle critiche, in quanto questa proposta finisce per realizzare, più che una genitorialità condivisa, una genitorialità divisa, con rischi di scissione nella vita del figlio. In realtà, occorre andare alla radice del conflitto coniugale e degli opposti punti di vista, di padri che si sentono marginalizzati nel rapporto con la prole e, d’altra parte, di madri che si sentono totalmente sole nell’affrontare la responsabilità e la fatica quotidiana che la crescita dei figli impone. Soltanto attraverso una rifondazione dei ruoli genitoriali in termini di maggiore elasticità e fungibilità, potrà veramente attuarsi lo spirito avanzato già previsto dalle convenzioni internazionali e che il legislatore nazionale ha cercato di tradurre in ambito giudiziario con la riforma sull’affidamento condiviso. 

5. La nuova emergenza della famiglia di fatto. La parificazione tra figli legittimi e naturali.

Alla riduzione dei matrimoni nei paesi occidentali, ha fatto seguito l’aumento delle convivenze di fatto. In alcuni casi, particolarmente in età giovanile, le convivenze di fatto si trasformano nel tempo in matrimoni e rappresentano dunque una sorta di rito di passaggio verso l’unione matrimoniale. Le convivenze di persone in età adulta, specie se fanno seguito a precedenti esperienze matrimoniali, assumono invece le connotazioni di una autonoma forma di aggregazione familiare. In generale, le convivenze fuori dal matrimonio sono caratterizzate da una maggiore autonomia reciproca dei partner, sia livello economico che di organizzazione dello spazio, del tempo e della vita sociale [8]. Anche in Italia, sia pure con un certo ritardo rispetto al resto dell’Europa, si sono affermati nuovi istituti giuridici in materia di diritto di famiglia (divorzio, l’adozione legittimante, riforma del diritto di famiglia), ispirati al rispetto dei processi di autonomizzazione delle persone all’interno delle aggregazioni familiari. Ciò ha determinato l’incremento delle forme di convivenza sganciate dal matrimonio. In particolare, nell’ultimo decennio, non solo si è accresciuto il fenomeno delle convivenze prematrimoniali, e delle convivenze tra due matrimoni, ma, soprattutto nel Nord Italia, si è incentivato il fenomeno della negoziabilità delle convivenze e dunque delle convivenze fuori dal matrimonio. Mentre solo l’1,4% dei matrimoni celebrati prima del 1974 era stato preceduto da convivenza, tale quota è salita al 98,8% tra il 1984 1993, al 14,3% dal 1999 al 2003. La crescita di questo fenomeno ha anche determinato una evoluzione giuridica volta a parificare la filiazione naturale alla filiazione legittima. In tal senso si segnala la Legge 10 dicembre 2012 n. 219, disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali, seguita dal recentissimo d.lgs. 28 dicembre 2013 n. 154, attuativo della delega contenuta nell’art. 2 della predetta legge. Tale riforma ha realizzato, almeno sul piano sostanziale, la parificazione della filiazione naturale alla filiazione legittima, che prevede l’abolizione del doppio status tra figli naturali e figli legittimi. Invero, la cosiddetta famiglia di fatto ha assunto rilevanza giuridica, ai fini della tutela dei figli naturali, con il nuovo diritto di famiglia, che ha introdotto l’art. 317 bis cod. civ., oggi modificato dalla menzionata riforma della filiazione. E’ noto, peraltro, come l’emersione giuridica della famiglia di fatto non ha comportato una parificazione con la famiglia legittima, atteso che con riferimento ai figli naturali il legislatore incentrava la propria attenzione unicamente sull’esercizio della potestà dei genitori, attraverso una procedura di volontaria giurisdizione, mentre solo nelle situazioni di crisi della famiglia legittima si è istituito un procedimento di tipo contenzioso attraverso il quale regolamentare, oltre alle questioni di status e ai rapporti tra i coniugi, i profili relativi all’affidamento ed il mantenimento della prole, secondo i principi stabiliti dall’art. 155 cod. civ. Sennonché nella prassi si è verificata una notevole crescita del fenomeno delle famiglie di fatto, con un sensibile incremento dei ricorsi proposti al Tribunale per i Minorenni per una regolamentazione generale dell’esercizio della potestà nei confronti dei genitori non conviventi. Con l’entrata in vigore della citata Legge 8 febbraio 2006, n. 54,  è stato modellato il procedimento ex art. 317 bis c.c., oggi ricondotto dal modificato art. 38 disp. att. c.c. al rito camerale, per la sola regolamentazione dei rapporti con la prole nata da genitori non coniugati, modellato su quello previsto dall’art. 155 c.c. in materia di separazione tra coniugi. All’unificazione delle competenze davanti al tribunale ordinario, non è dunque corrisposta l’unificazione dei riti, in quanto relativamente ai figli nati fuori dal matrimonio continua a operare un rito maggiormente semplificato, in quanto improntato al modello della volontaria giurisdizione. Orbene, la menzionata legge 10 dicembre 2012 n. 219, completata dal decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154, realizza la piena parificazione dei diritti spettanti ai figli nati fuori dal matrimonio con quelli nati nel matrimonio, eliminando ogni distinzione, anche terminologica, tra figli naturali e figli legittimi (il testo prevede che nel codice civile, le parole “figli legittimi” e “figli naturali”, ovunque ricorrano, siano sostituite da “figli”) ed equiparandone lo status giuridico (l’articolo 315 cod. civ. è sostituito dal seguente: “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”). Viene inoltre espressamente riconosciuta, anche per i figli nati fuori dal matrimonio, la parentela con i familiari diversi dai genitori, essendo stato il previgente art. 74 cod. civ., sostituito dalla previsione che “La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimoni.” Controversa è la modifica della disciplina sui figli incestuosi, spesso nati da abusi intra-familiari, che prevede la possibilità del riconoscimento, previa autorizzazione del tribunale per i minorenni. Va segnalata infine, con l’inserimento dell’art. 315 bis del cod. civ., l’introduzione dei diritti del figlio di “crescere in famiglia e mantenere rapporti significativi con i  parenti” (formula ripresa dalla disciplina dell’affidamento condiviso, cfr. art. 155 cod. civ., come modificato dalla legge n. 54/2006) e di essere ascoltato, se maggiore di anni 12, in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Sul piano processuale, l’anzidetta normativa trasferisce la competenza per i procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati davanti al tribunale ordinario. Si tratta di un intervento frettoloso, in quanto non viene in alcun modo disciplinato il rito, che rimane quello camerale e nulla è previsto in ordine alla trattazione delle questioni de potestate in pendenza di procedimento. In definitiva, pur se appare di fondamentale importanza l’affermazione di principio relativa alla parificazione tra filiazione legittima e naturale, deve ancora compiersi molta strada, per la completa tutela dei diritti dei figli naturali. Invero, accanto ad una riflessione di tipo progressista, che mira a dare dignità alle scelte di vita difformi rispetto ai modelli tradizionali e attribuisce centralità alla tutela dei minori, la minore stabilità delle convivenze viene guardata con preoccupazione, in quanto determina un incremento del numero dei minori potenzialmente coinvolti nelle dinamiche di separazione tra i genitori, laddove il tessuto sociale e istituzionale non è ancora sufficientemente attrezzato a dare tutela alle parti deboli nei rapporti familiari.

Valeria Montaruli, Magistrato, si è occupata a lungo di procedimenti in materia di famiglia e persona. Per molti anni ha esercitato le funzioni di giudice in ambito penale. E’ stata inoltre giudice minorile. Ha nel tempo collaborato con alcune riviste giuridiche, pubblicando diversi articoli e note a sentenze. E’ stata, nell’ultimo triennio, relatrice in numerosi incontri di studio di diritto minorile, in materia di procedimenti de potestatemobbing familiare e profili relativi alla tutela civile. In particolare, ha coordinato gruppi di studio in materia familiare e minorile presso il Consiglio Superiore della Magistratura, e nell’ambito della neo istituita Scuola della Magistratura. Ha svolto attività di docenza presso la Scuola di specializzazione nelle professioni legali dell’Università degli studi di Bari. E’ stata componente della Commissione d’esami per il concorso in magistratura. E’ autrice e co-autrice di varie opere monografiche, particolarmente in materia di responsabilità civile. Attualmente è Presidente del Tribunale per i Minorenni di Potenza.

NOTE:


[1]  Presidente del Tribunale per i Minorenni di Potenza.

[2]  Cfr. V. Pocar-P. Ronfani, La famiglia e il diritto,  Laterza, Bari, 2006, p. 132.

[3] Cfr. C. Saraceno-M. Naldini, Sociologia della famiglia, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 70: si evidenzia come, in questo quadro di acquisizione di nuove autonomie, il legame di parentela viene interpretato come potenzialmente conflittuale, sia con quello della democrazia, che con quello dell’efficienza.

[4] Cfr. A. Bonomi, “Agire nella zona grigia della famiglia delle moltitudini”, relazione al congresso dell’AIMMF tenutosi a Milano nel novembre 2009, Infanzia e diritti al tempo della crisi:verso una nuova giustizia per i minori e la famiglia,in www.minoriefamiglia.it.

[5] Cfr. A. Acquaro-C. Saraceno, “Matrimonio? No grazie, il sorpasso dei single in USA”, in La Repubblica, 9 novembre 2011.

[6] C. Saraceno-M. Barbagli, Separarsi in Italia, Bologna, Il Mulino,  1998, 232 ss.

[7]  Cfr. F. Buttiglione, ‘Alla ricerca di prassi virtuosa in materia di famiglia dopo la legge n. 54/06, affidamento condiviso ed esclusivo’, relazione tenuta all’incontro di studi organizzato a Roma, dal Consiglio Superiore della Magistratura, in data 8 marzo 2011.

[8]  Cfr. C. Saraceno-M. Naldini, op. cit., pp. 110 sgg.