Jung e l’arte: dall’esperienza personale agli esiti teorici

Dopo il “divorzio” da Sigmund Freud iniziò per Carl Gustav Jung un periodo che egli stesso definì di “incertezza interiore”, caratterizzato da una spiccata introversione che lo indusse a recidere i rapporti col mondo universitario e la ricerca scientifica.
Il profondo disorientamento lo portò a una volontaria discesa nel “Regno delle Madri”, in altri termini a quel pericoloso confronto con l’inconscio e col mito che aveva trattato scientificamente in “Trasformazioni e simboli della libido”.
Scendendo nei particolari della sua esistenza, Jung si lasciò andare a quella che più tardi definì l’immaginazione attiva.
Deciso a seguire il proprio impulso creativo, anche a costo di cadere nel ridicolo, si dedicò senza remore a veri e propri giochi di bricolage, realizzando, pezzo dopo pezzo, un villaggio in miniatura che sembrava connotarsi nei termini di un’esperienza rituale.
Il “gioco” rappresentò, com’egli stesso afferma nella sua autobiografia, una sorta di preludio, un “rite d’entrée” che gli consentì di prendere contatto con un “flusso incessante di fantasie” provenienti dal “sottosuolo”.
I contenuti di alcuni sogni e visioni davvero inquietanti (fiumi di sangue, alluvioni, mareggiate, glaciazioni) apparentemente soggettivi, sembravano riguardare in realtà l’umanità intera…
Nell’autunno del 1913 Jung ebbe una serie di visioni profetiche della guerra imminente:- “Mi resi conto che si avvicinava una terribile catastrofe: vedevo i violenti flutti giallastri, le fluttuanti macerie delle opere della civiltà, gli innumerevoli morti, e infine il mare divenuto di sangue (…) Una voce interna mi disse: ”Guarda bene, è tutto vero, sarà proprio così…” (in “Ricordi, sogni, riflessioni”, pag. 217).
I sogni e le visioni cessarono nell’estate del 1914. Il primo agosto scoppiò la guerra mondiale.
Jung annotò le proprie fantasie come meglio poteva, ma nonostante i suoi sforzi nel gestire i contenuti che via via affioravano dal ‘sottosuolo’, ne scaturì un linguaggio elevato e ampolloso.
Egli ricercava costantemente il senso da attribuire a quelle immagini e una volta, mentre era intento al suo metodico lavoro di annotazione, lo colse l’idea che l’intera esperienza potesse avere a che fare con l’arte…
La seducente ipotesi gli era stata come “suggerita” da una voce femminile interna, nella quale egli aveva riconosciuto in un primo tempo una sua paziente e successivamente l’Anima, una struttura archetipica presente nell’inconscio dell’uomo. Così dialogava incessantemente con questa entità femminile, descrivendo le proprie fantasie e consultandola quasi in termini oracolari quando il suo assetto emotivo era particolarmente turbato.
Le fantasie di Jung a quei tempi erano popolate da figure bibliche come Salomè ed Elia che lo studioso riconobbe successivamente quali personificazioni di alcuni archetipi. Successivamente un’altra immagine emerse dal suo inconscio, sviluppandosi naturalmente da Elia e manifestandosi in un sogno:- “Le diedi il nome di Filemone. Filemone era un pagano, ma avvolto in un’atmosfera egizio-ellenistica, con una coloritura gnostica. La sua immagine mi si presentò per la prima volta nel sogno seguente: C’era un cielo azzurro, ma sembrava il mare, non coperto da nubi, ma da zolle di terra bruna. Sembrava che le zolle si allontanassero l’una dall’altra e lasciassero scorgere l’acqua azzurra del mare. Quest’acqua era però il cielo azzurro. Improvvisamente dalla destra giungeva, librandosi nell’aria, un essere alato. Era un vecchio con corna taurine. Portava un mazzo di quattro chiavi, tenendone una come se fosse sul punto di aprire una serratura. Era alato, e le sue ali erano quelle di un martin pescatore, con i loro caratteristici colori. Non riuscendo a capire questa immagine onirica, la dipinsi per meglio vederla. Nei giorni in cui ero occupato a dipingere trovai nel mio giardino, presso la riva del lago, un martin pescatore morto! Ero sbalordito, poiché solo di rado capita di vedere uccelli del genere nei dintorni di Zurigo. Era morto di recente, al più da due o tre giorni, e non aveva segni di ferite. Filemone e le altre immagini della mia fantasia mi diedero la decisiva convinzione che vi sono cose nella psiche che non sono prodotte dal’Io, ma si producono da sé, e hanno una vita propria…” (Ibidem, pagg.225-226).
Filemone insegno a Jung la “realtà dell’anima”, divenendo il suo guru interiore, il suo “psicagogo”.
Più tardi questa figura-guida fu offuscata dall’emergere di Ka, un’altra importante immagine prodottasi spontaneamente, che rappresentava una specie di demone della terra o del metallo.
Salomè, Elia, Filemone, Ka, erano tutte manifestazioni di processi profondi dell’inconscio, patrimonio comune a tutta l’umanità, che la crisi personale di Jung aveva per così dire “elicitato”.
Gli esiti del confronto con l’inconscio trovarono la loro prima realizzazione in una raccolta di sei piccoli volumi rilegati in pelle nera, il “Libro nero”, i cui contenuti furono successivamente trascritti in un grosso volume in folio, rilegato in pelle rossa, il “Libro rosso”.
Nel Libro rosso Jung tentò un’elaborazione artistica delle sue fantasie in un linguaggio e uno stile assai ricercati, servendosi della grafia gotica, sull’esempio dei manoscritti medievali.
La suggestione artistica deve aver influenzato Jung in maniera davvero incisiva, e questo è confermato dai diversi tentativi di dar forma estetica alle proprie immagini. I “Ricordi” ci informano che il “Libro rosso” era corredato di una serie di dipinti “mandala” realizzati a partire dal 1916.
Per mandala si intende un’immagine circolare che può essere disegnata o dipinta, ma anche modellata o addirittura tracciata danzando (si pensi alle danze dei Nativi americani o dei dervisci). Spesso questa forma contiene una quaternità e compare, come scoprì Jung in seguito alla sua esperienza personale e clinica, negli stati di disorientamento o di dissociazione psichica.
All’epoca del personale confronto con l’inconscio Jung si servì di queste forme circolari nei suoi dipinti, istintivamente, senza curarsi del loro significato. Solo qualche anno dopo, a Chateau d’Oex, dove quotidianamente tracciava disegni sul suo album, cominciò a concepire il mandala come “crittogramma del Sé”, una sorta di specchio della personalità globale che risulta armoniosa solo quando tutto procede per il meglio.
Le pitture rituali su sabbia dei Navaho possono essere considerati, al pari delle configurazioni tibetane, dei veri e propri mandala. Sembra che entrambe rispondano a chiare esigenze di tipo “curativo”, volte alla ricerca di un equilibrio, anche se la loro bellezza e armonia le avvicinano inequivocabilmente all’arte.
Il dilemma tra arte e scienza ha segnato profondamente l’esistenza di Jung, come pure il rapporto con la dimensione sovrannaturale, dal momento che lo psichiatra, durante il suo viaggio all’interno, sentiva di “obbedire a una volontà superiore”…
In un linguaggio tra il filosofico e il letterario, che corrispondeva all’incirca a quello del Libro rosso, Jung scrisse in tre sole sere, nel 1916, dei dialoghi con i defunti come risposta a un’invasione spiritica avvertita nella sua casa di Küsnacht:- “Tutta la casa era come abitata da una folla di gente, come se fosse stipata di spiriti. Si affollavano fin sotto la porta, e si aveva la sensazione di poter respirare a fatica. Ero naturalmente tormentato dalla domanda: “Per amor di Dio, di che mai si tratta?” Allora in coro gridarono:- “Torniamo da Gerusalemme, dove non abbiamo trovato ciò che cercavamo…” Queste parole corrispondono alle prime righe dei Septem Sermones ad Mortuos” (Ibidem, pagg. 234-235).
La folla di spiriti avvertita da Jung e dai suoi figli sparì quando lui decise di scrivere i Sermoni. Secondo Jung la sua anima, volata da lui durante una fantasia, si era ritirata nell’inconscio, che corrisponde alla mitica terra dei morti, la terra degli antenati. Da allora divenne sempre più chiaro che i morti rappresentavano le tracce ancestrali dell’inconscio, “le voci dell’Inesplicabile, dell’Irrisolto, dell’Irredento”…
Gli scritti di Jung, i suoi mandala, le sue fantasie avrebbero potuto trovare giusta collocazione in ambito estetico, ma lungi dall’attribuire loro un valore artistico, come avrebbe voluto imporgli la “signora estetizzante”, egli giunse alla conclusione che le voci dell’Inesplicabile, pur rappresentando il coronamento della sua esperienza negli abissi, riguardavano l’umanità intera.
La maggior parte della produzione scientifica junghiana successiva è una continua amplificazione delle produzioni fantastiche emerse in quel periodo, una traduzione teorica della sua sconvolgente vicenda personale.
A detta di Jung, la sua scienza era il solo mezzo che avesse per districarsi da quel caos. Considerare arte le sue fantasie lo avrebbe portato ad assumere un atteggiamento di mera contemplazione, allontanandolo dall’obbligo morale di ricondurle alla realtà. Inoltre, invitato ad esprimere il suo parere nei confronti dell’arte contemporanea, Jung non esitò a definire quest’ultima “magia nera”, alludendo in primo luogo all’infrazione dell’ordine razionale che gli artisti del suo tempo mettevano sistematicamente in atto e, in secondo luogo, alla mancata ricomposizione in ordine, capace di integrare gli elementi fino ad allora esclusi dalla coscienza. Agli artisti e all’arte Jung chiedeva una nuova sintesi simbolica, ordine, forma. Non gradiva i mezzi espressivi del suo tempo né accettava le forze dissolventi del linguaggio poetico o pittorico, che a suo dire era fine a se stesso. La sua scienza dunque gli permise di rielaborare le fantasie del sottosuolo, o forse la sua scienza gli impedì di credere fino in fondo di essere dotato di quel “particolarissimo linguaggio” con cui un artista osa esprimere il proprio inconscio…

BIBLIOGRAFIA:

  • Jung C. G., “Ricordi, sogni, riflessioni”, raccolti ed editi da Aniela Jaffè, edizione riveduta e accresciuta, BUR, Milano, 1978.
    •  Salza F., “La tentazione estetica”, Borla, Roma, 1987.
    •  Vallino Marialuisa, “L’estetica di C.G.Jung”, Tesi di Laurea non pubblicata, Roma, 1989.