Il Sogno, il Mito e il Cinema: scenari immaginali e mutazioni, Giornale Storico del CSPL, n.34.

Il Sogno, il Mito e il Cinema: scenari immaginali e mutazioni, Giornale Storico del CSPL, n.34.

 

 

 

Marialuisa Vallino, articolo: Il Sogno, il Mito e il Cinema: scenari immaginali e mutazioni, pag. 82 del Giornale Storico del CSPL, fondato da Aldo Carotenuto, n. 34-Mutazioni-

ABSTRACT

Mutazióne è un termine con cui si designa il mutare, il mutarsi, l’essere mutato ed implica il cambiamento, la trasformazione. La metamorfosi riguarda il mutare forma, aspetto connesso alla figura mitologica di Proteo, le cui caratteristiche sono: svelare la verità e mutare aspetto. Il sognatore e il regista condividono con Proteo la capacità di ricreare, di aprire la realtà immaginale alla sfida del mutamento. L’immagine non si identifica con un singolo contenuto, ma si ritrova in ogni altro contenuto, così come l’attività immaginativa non è una fuga dalla realtà, ma un’esperienza vivificante che può sia ‘informare’, sia ‘trasformare’ la coscienza. La nascita contemporanea del Cinema e della Psicoanalisi, alla fine del XIX secolo, ha contribuito a determinare, sin dal principio, un dialogo incessante tra le due ‘discipline’ e il presente articolo ne sottolinea il legame. I riferimenti agli aspetti inconsci sono presenti nelle opere cinematografiche in modo più o meno esplicito, basti pensare al tema del “Doppio” e alle sue modalità rappresentative. Il cinema, inoltre, ha spesso usato il sogno come espediente ‘esplicativo’ o vero punto di partenza per la trama. Immagini e rappresentazioni sono concetti interrelati e connessi al divenire, al perenne fluire della psiche. Accanto al carattere ‘onirico’ della visione filmica, è possibile rintracciare il carattere ‘filmico’ della visione onirica. I sogni presentano numerose corrispondenze con le immagini dei film. Il mio contributo illustra l’attività creativa connessa alla dimensione immaginale che nel sogno come nel cinema si sviluppa a partire da quella ‘chiamata’ all’avventura che caratterizza anche l’eroe del mito. Molte storie cinematografiche possono essere analizzate ricorrendo al paradigma del monomito individuato da Campbell che si inserisce come trait d’union tra mitologia e cinema. La potenza delle immagini si accentua nella misura in cui vengono in luce determinate situazioni archetipiche che al di là del tempo e dello spazio mettono in scena la complessità della vita e i suoi sviluppi. Per certi versi, il cinema è in grado di creare veri e propri modelli di eroi e antieroi, quali ‘mutazioni’ da motivi archetipici.  Ho dedicato particolare attenzione al cinema noir, la cui cifra distintiva rappresenta l’altrove, non di rado connotato in termini orrorifici; il dubbio e la paura connessi all’Altro, gli aspetti inquietanti che si celano al di là del visibile, l’angoscia del limite e gli aspetti oscuri che ciascuno reca dentro di sé sono motivi che attengono alla sfera individuale, ma anche collettiva.

Relazione: “L’Universo immaginale femminile- Percorsi analitici nella seconda metà della vita”- Convegno, Bari, 11-10-2013

Relazione: “L’Universo immaginale femminile- Percorsi analitici nella seconda metà della vita”- Convegno, Bari, 11-10-2013

Convegno: La prevenzione nella terza età

Slide introduttiva:

Relazione: (Qui pubblicata nella sua versione parziale, in quanto gli organizzatori/fruitori del Convegno, sono i soli destinatari della versione integrale).

Le osservazioni che propongo si basano sulla mia pratica, che comprende psicoterapie individuali, consulenze in sessuologia ed indagini peritali svolte per conto del Tribunale Civile e Penale. Le persone che mi contattano per “scelta autonoma”, lo fanno non solo per ragioni strettamente cliniche, dettate da manifestazioni sintomatiche, ma anche per un’affinità nell’area dei valori. Più in generale, nella terapia a lungo termine, di frequente affiora il bisogno di un modello di ruolo, quale componente di un transfert idealizzante. Se in un primo momento si investe l’analista di un potere salvifico eccezionale, in un secondo momento si impara a fare i conti con se stessi, con le proprie ferite interne e si realizza che l’altro può solo creare il terreno adeguato a favorire una trasformazione psicologica. La relazione, il riconoscimento attraverso la “legittimazione” e la progressiva presa di coscienza del valore della propria individualità sono i principali fattori di un processo trasformativo.

Le donne di età superiore ai 40-45 anni, manifestano sempre più frequentemente il bisogno di riappropriarsi di potenzialità mai sufficientemente espresse, e iniziano il percorso analitico proprio nella seconda metà della vita, in coincidenza con periodi particolarmente critici, quali la menopausa, la fine di una relazione, il termine dell’attività lavorativa. Relativamente ai DISTURBI SESSUALI FEMMINILI (Female Sexual Disorders), l’intervento clinico ottimale per la menopausa fisiologica o iatrogena dovrebbe integrare l’aspetto medico con l’attenzione alle componenti psicologiche e relazionali. La perdita completa o parziale degli ormoni sessuali si ripercuote su organi e funzioni, causando modificazioni biologiche, nonché conseguenze psicologiche, sessuali e relazionali. L’età al momento della menopausa, la molteplicità di fattori biologici, psicosessuali e relazionali, in gioco, contribuiscono a rendere estremamente variabile l’esperienza vissuta da ogni donna, sul fronte sessuale.

Molti analisti si rifiutano di accettare pazienti di una «certa età», nella convinzione che una trasformazione psicologica sia poco credibile in presenza di una strutturazione ormai cristallizzata della personalità. Una visione psicologica differente è quella di chi dirige l’attenzione non esclusivamente sulle cause riposte nel «passato», ma sul concetto di Individuazione, introdotto da Jung, che è da intendersi come un  processo che inizia dalla nascita e continua incessantemente per tutta la vita, se non oltre. Il rallentamento dei ritmi vitali, l’impossibilità di utilizzare l’energia fisica nella sessualità o in attività motorie pesanti, non determina affatto una diminuzione della libido, dell’energia vitale, ma una sua nuova canalizzazione. Se ad una certa età non si fa più l’amore, non si corre più, non si passa più vorticosamente da un affare a un altro, si può essere “diversamente attivi”, profondamente attivi nel contemplare la realtà. L’errore collettivo in cui facilmente s’incorre è il pensare alla seconda metà della vita come ad una fase di stagnazione, di stasi psichica e di impoverimento delle potenzialità creative, e ciò deriva da un errato concetto di «sviluppo». In molte donne, la menopausa coincide con una fase di crisi che ha la sua origine in un’idea collettiva di progresso che fa coincidere il massimo dello sviluppo con una nozione di «efficienza». Progresso sembra significare capacità di prestazioni, e produzioni…

Simbolicamente, il non poter più generare figli rappresenta, per alcune donne, una forte limitazione identitaria, spesso ipercompensata da un bisogno di fornire un’immagine di sé in netto contrasto con un vissuto di lacerazione interiore. Già Simone De Beauvoir, ne “Il secondo sesso” aveva posto l’accento sul significato ancestrale della mestruazione, e noi oggi possiamo confermare che la sua cessazione coincide per certi versi con la perdita di un potere, che è non solo legato alla funzione procreativa, ma anche a quella seduttiva, e il disagio di molte donne deriva dal sentirsi espropriate della possibilità di esprimere la propria femminilità in termini culturalmente e socialmente approvati. Riporto il caso di una signora in menopausa (segue descrizione, limitata all’ambito congressuale). Questo dato lasciava intendere un rapporto non sereno con l’autoimmagine di sé, che vacillava di fronte ad un cambiamento fisiologico. Una certa fragilità identitaria si riscontra quando i bisogni individuali vengono soppiantati da quelli collettivi, quando cioè si fonda la propria esistenza sul bisogno di approvazione. Nelle donne è frequente il riscontro di sfiducia e svalorizzazione in compiti che implicano una progettualità individuale in contrasto con i bisogni altrui (partner o figli) o non aderente a quanto proposto dal sociale (ipervalorizzazione del materno) nelle pratiche codificate di cura e nutrimento. Buona parte delle energie, nella prima metà della vita, vengono impiegate da molte donne ad elaborare i desideri altrui, così da potervi corrispondere adeguatamente, con chiare ripercussioni sulla propria autonomia.

La trasmissione di fiducia in sé, la progettualità autonoma, la valorizzazione di capacità femminili al di fuori della riproduzione, della funzione allevante, appare ancora difficile. L’oblatività è la modalità relazionale di chi è sempre disponibile alle richieste dell’altro, non avanzando mai propri bisogni. Le caratteristiche principali della dinamica oblativa sono: preoccuparsi degli altri prima che di sé, non essere ma dare, trovare riconoscimento nel consenso altrui. La donna votata all’oblatività acquista nel rapporto una posizione di potere, ma non porta mai, all’interno della relazione, i propri bisogni, solo le aspettative dell’altro, sicché non può proporsi altrimenti per il timore di subire un rifiuto e perdere la stessa relazione. Quando il dare non ottiene riconoscimenti, si sente svuotata, annullata, e minacciata nella sua identità. Nella seconda metà della vita, perpetuando tale modello, la donna giunge al punto di svolgere attività faticose, spesso non richieste, per timore di perdere il controllo sul ménage familiare e il riconoscimento del tipico ruolo di figura imprescindibile. La dinamica oblativa presuppone l’impossibilità di recedere dal controllo e costituisce una modalità difensiva dalla separazione. La pressione costante ad ingraziarsi l’altro porta inevitabilmente ad un sentimento soggettivo di inautenticità, mancanza di autonomia, negazione del Sé. Sappiamo che il falso Sé è una struttura perfettamente aderente alle richieste dell’ambiente che si costruisce tradendo la propria vera natura.

Il diniego delle parti autonome di sé impedisce alla donna di porre se stessa sulla scena in quanto soggetto attivo e desiderante.

Quello che ad un certo punto della vita si traduce in una forma di disagio può derivare dall’emergere di nuovi bisogni che, se misconosciuti, possono esprimersi col linguaggio dei sintomi. Quello che può apparire uno stanco ripiegamento su se stessi, un inaridirsi progressivo delle proprie capacità, è il primo segnale di un importante cambiamento di rotta: l’inizio cioè di un lento processo di concentrazione dell’energia libidica verso una meta differente da quella “estroversa”.

Non esiste una fase della vita in cui si arresti l’evoluzione psichica, perché non esiste un limite nella ricerca di senso. E la seconda metà della vita diventa l’occasione per conoscere la propria vera natura…

Questo nuovo modo di impiegare le proprie energie determina una fase di introversione, con tutti i pericoli ma anche le potenzialità connesse ad ogni viaggio nelle proprie profondità. Ci sono infinite possibilità di attingere alle risorse dell’inconscio e accoglierne le sollecitazioni, scoprire le proprie potenzialità creative latenti, lasciate in penombra per tutta una vita. Non ci sorprende che opere di straordinario valore siano state compiute in tarda o tardissima età, come l’arte e la scienza testimoniano. L’analisi può coincidere con un primo tentativo di bilancio, e un primo distacco dal mondo in vista di una piena identificazione col vero Sé.

Jung affermava che la vecchiaia è il tempo della raccolta preziosa, in vista di una ignota trasformazione, di una nuova canalizzazione delle energie vitali. A volte, anche la scelta di un terapeuta o di un altro può essere un segnale indicativo del modo in cui la donna assume su di sé il carico dei suoi bisogni e la modalità con cui entra in relazione è rivelatrice di una particolare struttura di personalità. Dal punto di vista pratico, noi dobbiamo decidere se la richiesta coincide con ciò che è preferibile per la paziente e quindi se debba essere assecondata; dal punto di vista teorico, la richiesta è di per sé indicativa di certi aspetti della psicologia femminile, primo fra tutti il rapporto con l’alterità. L’esperienza sottolinea di continuo il ruolo fondamentale degli stereotipi di genere nella strutturazione dell’identità. Stereotipi e aspettative di genere assegnano agli individui specifiche capacità e attitudini, limitando i loro ruoli e le loro possibilità. Con il concetto di stereotipo indichiamo una struttura organizzata composta da caratteristiche che il soggetto ritiene proprie di un certo gruppo sociale. Convincersi di “non essere capaci” è un tipico effetto dell’azione dello stereotipo ed ha come risultato l’effettivo allontanamento del soggetto da una certa area di esperienza (con relativa mutilazione della personalità), allontanamento che a sua volta rinforza la convinzione sulla propria incapacità o inadeguatezza.

È ampiamente riconosciuto che la donna «femminile» debba compiacere l’uomo, essere affascinante, coinvolgente, gentile, saper esprimere ammirazione, e comportarsi in modo non aggressivo e non assertivo. Questa modalità di comportamento è talmente remunerativa e così adattiva, nel contesto sociale, che è molto difficile abbandonarla volontariamente. In realtà, come confermano anche gli studi etologici, l’atteggiamento ingraziante non è intrinseco allo sviluppo femminile, ma è piuttosto una delle caratteristiche distintive del comportamento di qualunque essere privo di potere di fronte a quello dominante.

In analisi, che è il luogo per eccellenza in cui l’individuo emerge nella sua autenticità, le donne, impegnate per la prima volta in un percorso di autonomia, cominciano ad abbandonare questa forma di femminilità stereotipata, soprattutto se il terapeuta è in grado di accogliere lo scambio osmotico tra maschile e femminile, in sé come nei suoi pazienti, dando luogo ad un’inesauribile fonte di combinazioni individuali e reciproche. Prendere coscienza implica essere alla continua ricerca dell’altro immaginale, della controparte inconscia: come Jung ha riconosciuto, l’Animus e l’Anima sono le componenti controsessuali che fanno da ponte tra l’Io e il Sé, consentendo l’integrazione, nella donna come nell’uomo, di atteggiamenti e valori inconsci che possano consentire il pieno riconoscimento e rispetto dell’alterità. Lo strato collettivo da cui sorgono gli Archetipi, infatti, è più profondo di quello in cui si forma lo stereotipo, essendo uno strato transculturale che accomuna l’umanità nel tempo e nello spazio. Le immagini controsessuali possono comparire, durante il lavoro analitico, sia in forma positiva e idealizzata, sia in forma negativa e svalutante. Animus dovrebbe proporre all’Io femminile di ridimensionare drasticamente un eccesso di maternage e di oblatività. Nella sua forma più evoluta dovrebbe arricchire la coscienza femminile di una capacità di riflessione intellettuale molto più libera, più distaccata e oggettiva, scevra da personalismi, quindi creativa; dopo l’Animus compare, nella donna, l’Archetipo della madre ctonia, Madre Natura in tutta la sua grandezza, un modello altrettanto ideale di femminilità completa, pienamente consapevole della sua forza, fiduciosa della sua creatività spontanea, che ha abbandonato la sicurezza fittizia delle convinzioni stereotipate o la smania di controllo, per conquistare la padronanza piena e appagante della sua conoscenza istintiva della vita.

E’ possibile leggere nelle tante manifestazioni sintomatiche che i pazienti portano in analisi un conflitto tra l’immagine di sé offerta al mondo e le immagini interne del maschile e del femminile. La risoluzione di tale conflitto consente all’uomo e alla donna di ristrutturare una personale identità di genere, fondata sulla differenza, ma anche sull’integrazione dell’ “altro da sé” e dell’ “altro in sé”.

Il sogno che segue fu portato da una donna capace e profonda che aveva visto naufragare importanti progetti affettivi nella prima metà della sua vita.

Priva di qualunque forma di fede, fronteggiava da sola un ambiente esterno materiale, uniforme, noioso, e l’analisi coincideva con una ricerca di senso, di qualcosa cioè che potesse ricondurla alla propria fonte creativa.

Si riceveva l’impressione che fosse piuttosto passiva e inarticolata nel rapporto col maschile, ed incapace di accedere in modo libero alle proprie risorse interiori, ma si coglievano anche i segnali di una nuova vita che avrebbe preso il posto di quel vuoto emozionale che da tempo la accompagnava.

Improvvisamente raccolse in un sogno le seguenti immagini: Segue descrizione (limitata all’ambito congressuale)

Il materiale onirico riportato può essere utilizzato a scopo comparativo, al fine di individuare le immagini interiori che nel sogno, ci consentono di rivisitare gli scenari e gli dei del mondo antico. Occorre puntualizzare che la sognatrice non aveva alcuna conoscenza di mitologemi e gli studi da lei effettuati escludevano la presenza di nozioni antropologiche o psicologiche profonde.

Annotazioni cliniche sullo sviluppo dell’Animus:

Animus come Estraneo: contenimento del Sé nel mondo materno (equivalente mitologico: il ratto di Persefone. Nell’Inno omerico a Demetra, si narra che mentre Persefone era impegnata a raccogliere fiori con le Oceanine, si aprì una voragine sotto i suoi piedi e ne uscì il “signore infernale”, Ade in persona, che la condusse via sul suo carro d’oro. Per intercessione di Ermes, Ade si decise a liberare la fanciulla, ma fece in modo che, prima di abbandonare la dimora infernale, mangiasse un chicco di melagrana. Per questa ragione Persefone fu costretta, da quel momento in poi, a passare un terzo dell’anno “nella densa tenebra” e i restanti due terzi con la madre Demetra, ricevendo il titolo di ‘signora’ degli inferi).

Animus come Patriarca- Padre- Sovrano: sacrificio del Sé- Principio maschile che annulla, inglobandolo, quello femminile (equivalente mitologico: Zeus- Atena- Metis: Zeus, forte e astuto, dopo aver inghiottito la dea Metis[1], “la sposa primordiale” che significa ‘senno’ -primo elemento che rimanda ad un femminile ‘cerebrale’, spoglio delle arcaiche caratteristiche ‘materiali’- partorì dalla testa la figlia che portava in grembo: Atena la figlia divina già vestita delle armi).

Animus come Amante: si collega al desiderio e al mistero dell’altro, lo slancio entusiastico verso la vita (equivalente mitologico: Amore e Psiche, Apuleio, “Le Metamorfosi”, Libro IV).

Animus come Partner: (raro in terapia come altrove) rappresenta l’autenticità assoluta nella relazione, consentita dal ritiro delle proiezioni.

In conclusione, la seconda metà della vita rappresenta per la donna un’opportunità per:

  • Divenire una in se stessa,
  • vivere le proprie emozioni,
  • saper reggere e contenere la percezione del vuoto,
  • riappropriarsi della propria progettualità, accogliendo la sfida dell’ignoto,
  • mantenere in vita la capacità di creare legami significativi.

E che dire dell’uomo?

Quando un uomo ha un rapporto positivo con la propria Anima, è ricettivo ai processi spirituali della psiche profonda, prevale in lui la capacità di amare, in opposizione all’impulso di potere…

Bari, 11 Ottobre 2013. Incontro: “La prevenzione nella terza età”- Prima sessione-

Relatrice, dott.ssa Marialuisa Vallino

THE DANISH GIRL

THE DANISH GIRL

Einar è diverso da sua moglie. Lui dipinge paesaggi illuminati dalla luce obliqua di prima estate, o velati dal pallido sole invernale. Greta  dipinge ritratti per i ricchi committenti della borghesia cittadina e lavora come illustratrice. Per completare il ritratto di una nota cantante d’opera, Greta chiede al marito di posare per lei in abiti femminili…

“Questo sarà il nostro segreto, vero Greta?» sussurrò Einar. «Non lo dirai a nessuno, vero?» Era spaventato ed eccitato al tempo stesso, e il pugno di bimbo che era il suo cuore gli pulsava in gola. «A chi dovrei dirlo?»  «Ad Anna.» «Non c’è bisogno che Anna lo sappia» disse Greta. E comunque, Anna era una cantante lirica, pensò Einar. Era abituata agli uomini che si vestivano da donna. E alle donne che si vestivano da uomo, per il cosiddetto Hosenrolle. Era l’inganno più vecchio del mondo. E sul palcoscenico dell’opera, questo non significava nulla, se non un po’ di confusione che si risolveva sempre nell’ultimo atto”. (dal romanzo “The Danish Girl” di David Ebershoff)

È la storia romanzata di Einar Wegener/Lili Elbe e di sua moglie, Gerda Gottlieb, che si svolge nell’arco di sei anni, ripresa da Tom Hooper nell’omonimo film. Nel libro di Ebershoff, Gerda diviene Greta. Sappiamo che l’artista lavorò come illustratrice per conto di Vogue, La Vie Parisienne, Rire, La Baïonnette, con una “libertà” espressiva che la rese celebre.

Lili Elbe emerge lentamente dalle opere Art Déco realizzate da sua moglie Gerda, che ne enfatizza la figura slanciata e il volto malinconico. Einar si identifica con le raffigurazioni di Lili: la tela è l’occasione per accedere alla propria identità, compressa e negata troppo a lungo. Einar posa per Gerda e lei è sedotta dalla sua “musa”, che come il fiore cui allude il nome (day-lily, la calla) sboccia, delicato e chiaro, per effetto delle sue attenzioni.

Inizio della metamorfosi

La relazione tra Einar e sua moglie si connota come una “partita a quattro”, in cui entrano in gioco non solo gli aspetti coscienti e vissuti, ma anche quelli legati alle controparti sessuali inconsce della personalità di entrambi. L’altro che seduce è colui che enuclea una dimensione interna ed è il portatore di un’ immagine inquietante ed inespressa. La seduzione si inscrive nella dimensione della mancanza. Nel film (come nella realtà), Gerda è essenzialmente incline ad agire comportamenti non convenzionali, a non identificarsi in un ruolo femminile “tipico”, e lo stesso dicasi per Einar, i cui tratti delicati e poco rispondenti ad un modello “virile”, colpiscono immediatamente. L’altro appare pertanto come cifra simbolica di una completezza agognata e non ancora possibile. Il gioco che i due coniugi intraprendono è funzionale ad un reciproco percorso di integrazione: ciascuno, in altri termini, riesce a scardinare i filtri e le resistenze psicologiche in atto, sotto il segno di una carenza e di una promessa d’essere. Ci accorgiamo che nel film di Hooper il talento di Gerda si sviluppa pienamente dal progressivo emergere di Lili, che si afferma come “necessità” espressiva ed incoraggia la transizione dal maschile al femminile.

Questa dimensione trasformativa, ancora in ombra, non investe solo l’identità di Einar, ma anche quella di sua moglie: l’irruzione dell’elemento perturbante spezza la quiete e permette ad entrambi l’assunzione del proprio destino. E’ un percorso che ripropone, per certi versi, il tema mitologico della “prigioniera liberata”: il liberatore deve riuscire ad infrangere le porte della prigione, neutralizzare forze magiche e pericolose, abbattere le barriere che rappresentano l’inibizione e l’angoscia, risvegliare la parte di sé negata. Con la liberazione della prigioniera, una parte del mondo inconscio, vissuta in precedenza come estranea ed ostile, viene assimilata. Gerda rappresenta per Einar l’apporto necessario al periglioso sentiero della conoscenza di sé, l’Anima che segna il cammino fino a Lili. Einar diventa Lili, mentre Gerda comincia a dipingere in modo nuovo e ad assumere via via una varietà di ruoli e funzioni: sposa, amante, sorella, madre di Lili, sul letto di morte, sino alla completa accettazione di un Einar destinato a scomparire. Lili emerge da Einar o forse da Gerda: è il Femminile che congiunge opposti inconciliabili e ci ricorda il legame inscindibile di morte e divenire: perchè qualcosa di nuovo possa nascere bisogna amare, e bisogna anche morire.

Marialuisa Vallino

Dieci inverni: prologo di una storia d’amore

Dieci inverni: prologo di una storia d’amore

Locandina

Locandina

Regia: Valerio Mieli
Sceneggiatura:  Isabella Aguilar, Davide Lantieri, Valerio Mieli
Fotografia: Marco Onorato
Montaggio: Luigi Mearelli
Musiche originali: Francesco de Luca e Alessandro Forti
Scenografia: Mauro Vanzati
Durata: 99 minuti
Italia-Russia, 2009

PERSONAGGI E INTERPRETI
Camilla: Isabella Ragonese
Silvestro: Michele Riondino
Simone: Glen Blackhall
Fjodor: Sergei Zhigunov
Liuba: Liuba Zaieva
prof. Korsakov: Sergei Nikonenko
Clara: Alice Torriani
Pianista-cantante: Vinicio Capossela

Trama: Primo Inverno, anno 1999: A bordo di un vaporetto che collega le isole della laguna veneziana, Camilla nota tra la folla un ragazzo, Silvestro. I due iniziano a guardarsi: lei è timida, lui decisamente sfrontato. Quando il vaporetto attracca, lui decide di seguire la ragazza e le chiede di ospitarlo per una notte nella sua casetta sulla laguna. I due si sfiorano e si allontanano. Così comincia una parabola sentimentale lunga dieci anni…
Il film comincia con un motivo simbolico che prelude ad una sorta di “viaggio iniziatico”, un cammino individuativo, che sin dalle prime sequenze, prende origine dal mondo degli affetti. Il simbolismo della traversata da una riva all’altra è un motivo onirico-mitologico assai diffuso e allude alla necessità di passare ad uno stadio più elevato di consapevolezza. La figura di Camilla mostra in tal senso la sua funzione di “traghettatrice” nell’ambito trasformativo di Silvestro.
Durante l’incontro sul traghetto, lei reca con sé una lampada, un oggetto che permette di distinguere le cose e di orientarsi nel buio. Tradotto in termini simbolici, è lo strumento della conoscenza, analogo alla lucerna con cui Psiche illumina il volto di Eros, nella mitofiaba di Apuleio. Lui trasporta goffamente un alberello di cachi, quindi è associato ad un elemento simbolico, la pianta, che allude allo sviluppo del Sé.
La figura femminile emergente dalla folla, sembra sia funzionale all’attivazione di particolari aspetti della figura maschile: da una parte troviamo la fonte dell’illuminazione, dall’altra il bisogno di sviluppare le potenzialità inespresse. La condivisione tra i due giovani appare come una circostanza inevitabile, fondata sulla sincronicità.
La necessità dell’incontro appartiene ad uno schema interno che contiene delle leggi segrete e simmetriche. Notiamo infatti come tra i due giovani si instauri immediatamente un legame intenso, contrassegnato dai tratti di un amore potenziale. Ogni volta che un uomo e una donna entrano in contatto emergono più o meno inconsapevolmente, aspetti che orientano il rapporto nei termini di un’attrazione o al contrario di un rifiuto. Non a caso nella mitologia Eros viene  rappresentato armato di arco e frecce di opposto effetto: secondo Ovidio le frecce del dio erano due, una di piombo e l’altra d’oro: quella di piombo metteva in fuga l’amore, mentre quella d’oro lo suscitava…
Nel film il dio dell’Amore scaglia ora la freccia d’oro, ora quella di piombo, dando luogo a un’alternanza di sentimenti e situazioni antitetici.
L’oro capace di accendere la scintilla d’amore rappresenta l’intensità della passione, lo slancio entusiastico verso l’altro, un altro che sembra rappresentare, almeno apparentemente, il veicolo verso la felicità. Il piombo è il simbolo dell’individualità intatta; in qualità di metallo pesante, è tradizionalmente attribuito al dio separatore Saturno (La delimitazione) e rappresenta la base da cui può partire un’evoluzione trasformatrice.
Di solito quando due persone si amano “di colpo”, il loro amore è prevalentemente basato sulla proiezione. L’amore, secondo la prospettiva junghiana, è sempre una “partita a quattro” dove entrano in scena non solo gli aspetti coscientemente orientati della Personalità, ma anche e soprattutto le componenti eterosessuali che ciascuno reca segretamente in sé. Jung ha chiamato queste componenti archetipiche Anima e Animus.
L’Anima è essenzialmente la componente inconscia femminile presente nella personalità dell’uomo. Essa è il principio dell’Eros, quindi il suo sviluppo nell’uomo si riflette nel modo di rapportarsi alle donne.
L’Animus è la componente inconscia maschile della personalità della donna. Rappresenta il principio del Lógos e fa da ponte tra l’Io della donna e le sue risorse creative inconsce.
Dieci Inverni esplora il lato “magico” e archetipico della dimensione relazionale, il suo snodarsi attraverso una ricorsività necessaria.
Il silenzio e la fuga, codici comunicativi privilegiati tra i protagonisti rinforzano l’idea di un movimento verso l’interno.
Il fulcro del film è l’energia “alchemica” che si sviluppa dalla vicinanza di Silvestro con Camilla, e in effetti è da lei e per lei che prende avvio il percorso individuativo del ragazzo, che inizialmente non possiede alcun progetto di vita.
Il motivo della donna temibile ed enigmatica, personificata da Camilla, allude alla fascinazione dell’Anima con la sua provocante inafferrabilità, un’indefinitezza che sembra a Silvestro piena di promesse. Il personaggio di Camilla si sviluppa sulle tracce tipiche della Nouvelle Vague: si presenta inizialmente come una donna sensibile, ma distante, nei confronti della quale Silvestro si scopre e si confessa impacciato e intimorito, per poi trasformarsi nella donna determinata e infedele, capace di tradire il “sogno d’amore” con le occasioni del momento. La poliedricità della figura femminile, probabilmente fa da eco alla varietà di contenuti inconsci che il giovane deve integrare nella vita cosciente.
La ciclicità con cui i due ragazzi si avvicinano per poi allontanarsi, nell’arco temporale di dieci anni, riflette l’ambivalenza di sentimenti e l’impossibilità  di consegnarsi interamente l’uno all’altra, temi ben noti a Truffaut e Rohmer.
Ogni inverno è un quadro di ridefinizione del rapporto tra Camilla e Silvestro, un quadro in cui l’amore rimane inespresso, e tuttavia vivido al punto da condizionare inconsciamente le scelte affettive dei due. Quel che avviene al di fuori dei dieci quadri narrativi non viene mai spiegato, solo mostrato, ma è facile arguire che la corrente sotterranea che determina il naufragio delle rispettive storie d’amore sia animata da un sentimento profondo che solo il tempo potrà far emergere in superficie.
L’amore tra Silvestro e Camilla sembra obbedire a una legge di sottrazione, che negando continuamente la realizzazione piena del rapporto amoroso, aggiunge nel contempo corposità alle determinanti relazionali interne dei due protagonisti. In tal senso, la crescita del loro rapporto matura individualmente, ma stimolata dalla presenza continua dell’altro. Nel film, la casetta di Camilla è il luogo deputato a raccogliere e trasformare i frammenti di condivisione relazionale: è in essa che emergono i reciproci limiti d’accesso all’altro, le omissioni affettive, ma anche il bisogno irrefrenabile di vicinanza, a dispetto del tempo che passa.
Stare insieme non sempre è possibile, ma se le leggi interne portano due individui uno in direzione dell’altra, è inevitabile che prima o poi il rigido inverno si trasformi nella rigogliosa primavera…

Marialuisa Vallino