Il mostruoso nell’arte: l’oscura espressione dell’anima

Il mostruoso nell’arte: l’oscura espressione dell’anima

Trittico del giardino delle delizie (particolare) - Bosch

Trittico del giardino delle delizie (particolare) – Bosch

Ade, antipodo oscuro di Zeus e di Elio riceve, nei racconti mitologici, l’appellativo di Plutos (il ricco o colui che dona ricchezze) e di Eubuleus o Eubulos (il buon consigliere).
Ma Ade è conosciuto soprattutto come “colui che chiude la porta”, sicchè la soglia diventa in termini psicologici la linea di confine che separa due tipi di coscienza, quella “diurna” e quella “notturna”, quella egoica e quella immaginale. Entrare ed uscire dagli ‘inferi’ significa simbolicamente acquisire una ‘prospettiva ermetica’, riflettersi in una realtà fluida, cogliere la “sostanza dell’anima”. Ermes, infatti, abitando sulle linee di confine, è messaggero tanto di vita quanto di morte.
A differenza di Eracle, egli è in grado di oltrepassare porte e cancelli senza lotta e senza fatica. Il messaggero degli dei può, a ragione, essere considerato il vero archetipo delle connessioni psichiche, colui che rende possibile l’impiego simultaneo di prospettive differenti. Il poeta, al pari del dio, accetta il confronto con la realtà polimorfa e contraddittoria del suo essere quando, per dirla con Octavio Paz, “scrive le sue oscure verità” (1).
Alcuni poeti approdano alla verità dell’anima solo attraverso una consuetudine col dolore e la solitudine. Sono quelli che conoscono l’inferno e scoprono dentro di sé il volto folle e inafferrabile del Chaos primigenio, dell’ambivalenza. Il linguaggio di questi uomini è un varco tra le fiamme, è esperienza del Limite, conflitto tra bramosia e sacrificio, tra aspirazione all’unità e bisogno di dissoluzione.

Stiamo appollaiati a capofitto Sul ciglio della noia Ci sporgiamo verso la morte sull’estremità di una candela Sondiamo attorno per qualcosa Che ci ha già trovati. (2)

Jim Morrison traccia più volte di sé un ritratto che oscilla tra il sacro e il profano, non esitando a definirsi uno sciamano con l’anima di un pagliaccio, un medicine-man, un poeta, un trascinatore naturale, figure che ricordano i ruoli che il poeta francese Arthur Rimbaud elenca in Enfance IV:

Io sono il santo…
Io sono il sapiente…
Io sono il viandante della strada maestra…(3)

Se esistesse un solo termine in grado di compendiare la pluralità di epiteti e ruoli dei due poeti, accomunati dalla vocazione agli eccessi, questo sarebbe probabilmente “profeta” proprio per la capacità di attingere alle qualità infere della vita, senza dover scardinare porte e cancelli né dover catturare animali-guardiani della soglia.
Per i “viandanti dell’anima” il dolore e la malattia non sono entità separate dalla vita, ma sono parte di essa, anzi la nutrono.
In alcuni casi il cosiddetto Male è una marea incessante di immagini che invade l’Io, incitandolo ad assumere una forma: sogno e sintomo sono entrambi espressione di una realtà troppo spesso abolita e sacrificata, sicchè l’universo inconscio che attraverso essi si manifesta, finisce col sacralizzare proprio le cose che la coscienza si impegna a scartare.
Il disfacimento, il vuoto, la tenebra sono forme della realtà psichica che avvertiamo come processo di sottrazione alla solidità dell’Io. L’aspirazione all’unità passa inevitabilmente per l’invisibile Ade. Lo sanno i fabbri degli inferi, gli artisti, i visionari…
Per loro, come per chiunque sia immerso in un’esperienza introversiva, il contatto con l’immagine interna è bisogno imperioso. Per gli altri è paura e desiderio, repulsione e attrazione.
L’Io che visita il Regno notturno di Ade o il lettore davanti alla pagina di un racconto fantastico, compie un “viaggio iniziatico” che prelude al contatto con il fondo dell’anima. A volte l’immersione nel mondo immaginale non può darsi se non attraverso meccanismi di identificazione o di proiezione.
Una creatura terrificante, di proporzioni gigantesche, con un’escrescenza posta all’estremità di una proboscide a forma di cuneo, lunga una ventina di metri e circondata da un’immensa quantità di peli neri da cui sporgono due zanne infinitamente grandi. Due coppie di ali lunghe un centinaio di metri, ricoperte di spesse scaglie metalliche completano la figura, che reca sul petto l’effigie di una Testa di Morto, tracciata in uno scintillante color bianco sul fondo nero del corpo…
Improvvisamente le mascelle poste all’estremità della proboscide si spalancano e la creatura emette un suono spaventoso….
Così Edgar Allan Poe (1809-1849) descrive in un suo breve racconto, La sfinge (The sphinx), l’orribile mostro scaturito dai più reconditi recessi della mente.
Sì, il maestro della letteratura del terrore è pronto a svelare le paure ancestrali e le immagini sommerse che danno forma alle sue orribili creature.
E’ uno stato di “anormale depressione”, come si legge nel racconto, il terreno che predispone il narratore a vedere il “mostro” in questione, scaturito da un evento particolare e dal conseguente emergere di fantasie di morte che si legano all’esperienza reale, deformandone i parametri.
Come si scopre alla fine, la fantastica creatura altro non è che un insetto, noto come Sfinge Testa di Morto, arrampicato al filo di una ragnatela sul telaio della finestra…
A mettere fine all’incubo, l’estrema razionalità del padrone di casa. Sollecitato dall’angoscia provata dall’amico di fronte alla visione, lo rassicura chiarendo che “la principale fonte di errori in tutte le valutazioni umane risiede nella difficoltà di comprendere che le dimensioni di un oggetto possono essere sopravvalutate o sottovalutate per una imprecisa stima della distanza a cui si trova”.(4)
Un difetto di valutazione, dunque, che fa apparire mostruoso un piccolo lepidòttèro a chi, provato da alcune circostanze di vita, si trova in una condizione di estrema vulnerabilità emotiva…
Quante volte il mostruoso si insinua tra le maglie oniriche deformandone le immagini e creando scenari da incubo? Quante volte un rumore o un lampo improvvisi possono scatenare l’emergere di terrori mai sopiti?
Quando la mediazione dell’Io è assente o indebolita, il potere dell’inconscio è totale e sopraffacente…
Il mostro di Poe appare nel momento in cui il protagonista del racconto, costretto ad allontanarsi dalla sua città, a causa di un’epidemia di colera, proietta all’esterno la sua paura della morte, fino a quel momento accantonata, sicchè Il piccolo insetto, a causa dei “simboli di morte” incisi sul corsaletto, diviene il veicolo dell’angoscia…
L’esperienza visionaria attinge la sua sostanza dai mondi in ombra, come dimostra l’inquietante messaggio trasposto da Johann Heinrich Füssli (1741-1825) su una sua tela, “Incubo” (fig.1) dove la scelta del tema testimonia il bisogno di esplorare da vicino i campi dell’orrido e del sogno, di oggettivarli attraverso l’arte.

Figura1: J. H. Füssli, "Incubo", 1802

Figura1: J. H. Füssli, “Incubo”, 1802

L’incubo prende generalmente forma in una dimensione dominata dalla malinconia e dalla disperazione e in tale prospettiva, improntata alla vena più pessimista dello Sturm und Drang, Füssli si faceva portavoce dei misteriosi e inquietanti presentimenti sul sovrastare dell’irrazionale.
La scelta figurativa antirazionalistica assume aspetti ancor più radicali in William Blake, non a caso soprannominato “mad Blake”, di poco più giovane di Füssli, che mise a punto la tecnica dell’ illuminated etching, un tutt’uno di figurazione e parola che lo portò ad affermare i valori dell’ispirazione e della visione. Al culto degli scrittori classici l’artista oppose la riscoperta del Medioevo e la rivalutazione del gotico.
Il Bene era per lui “il passivo che obbedisce alla ragione”, mentre il Male era “l’attivo che scaturisce dall’Energia”, un pensiero non dissimile da quello contenuto in alcuni frammenti eraclitei. Sia nei versi che nella pittura Blake infuse il suo impulso visionario, raggiungendo effetti di grande suggestione.
Visioni e immagini della realtà o meglio dell’irrealtà onirica e allucinatoria diventano scenari apocalittici nell’opera di John Martin (1789-1854) intitolata “Pandemonium”, dove un’ardente marea di esseri diabolici scorre a mo’ di lava incandescente tra le mura di una città infernale, sotto lo sguardo del maligno.
Le incursioni nel terrore non sono estranee neanche al belga Antoine Wiertz (1806-1865), noto al grande pubblico per l’opera “La belle Rosine”, e ossessionato per tutta la vita da macabre visioni che davano corpo ad opere raffiguranti esseri sepolti vivi, scene di infanticidio e suicidio, che sembrano tracciare i contorni precisi e puntualissimi del disagio mentale.

Figura 2: A. Wiertz, "Fame, follia, crimine", 1853

Figura 2: A. Wiertz, “Fame, follia, crimine”, 1853

L’orrore nell’arte si pone a volte come esigenza di dialogo con se stessi, di confronto con i propri fantasmi, e questo spiegherebbe l’emergere di tematiche violente, arcaiche, mostruose, visionarie.
Nel racconto di Poe si legge, come abbiamo visto, che “la principale fonte di errori in tutte le valutazioni umane risiede nella difficoltà di comprendere che le dimensioni di un oggetto possono essere sopravvalutate o sottovalutate per una imprecisa stima della distanza a cui si trova”.
Il mostruoso, quindi nascerebbe da un’esasperazione della realtà, da una vicinanza estrema col simbolo che un oggetto racchiude al suo interno. L’etimo di “mostro” ci rimanda a “prodigio” e sul piano sacro il mostro svolge essenzialmente la funzione di guardiano del segreto, della conoscenza e del tesoro, assumendo un valore iniziatico.
L’irruzione del mostruoso, nella letteratura come nelle arti visive, rappresenta un pericolo, una minaccia per l’integrità dell’Io, ma anche una sfida al cambiamento, un’inversione di rotta in direzione dell’interno, quel luogo sepolto e incontrollabile della nostra esistenza che reca il sinistro marchio di Ade.
Ciascun sogno, come osserva James Hillman, “è un tirocinio ad entrare nel mondo infero, una preparazione della psiche alla morte” (5).
Il sonno ci pone in continuo contatto con i “morti”, gli eidola, le immagini, lo stesso materiale che affiora nella pittura fantastica e visionaria.
In molti artisti la creazione passa per chthon, il mondo infero della notte, dei sogni, degli spettri, dell’immutabile essenza della personalità.
Mentre siamo fuori, nei verdi campi di Demetra, nella solida sostanza del nostro “mondo diurno”, una parte di noi scivola, some Kore, nel carro di Ade, e un altro mondo si spalanca.
E’ lo stesso regno che troviamo nelle opere di Arnold Böcklin (1827-1901), dove l’essenza paurosa e oscura della realtà viene raffigurata anche con l’introduzione di figure e scenari mitologici, come per esempio in “Pan spaventa i pastori” e ne “L’isola dei morti”(fig.3).

Figura 3: Arnold Böcklin, “L'isola dei morti”, seconda versione, giugno 1880

Figura 3: Arnold Böcklin, “L’isola dei morti”, seconda versione, giugno 1880

L’isola dei morti, motivo mitologico e onirico ricorrente, è terra circondata da acqua e riproduce l’esperienza primordiale, lo spazio intrauterino.
Nei dipinti come nei sogni essa è il luogo che meglio si presta a rappresentare il rientro in se stessi, l’interiorizzazione necessaria all’evoluzione psichica. Nel suo aspetto positivo l’isola evoca la salvezza spirituale, la presa di coscienza che passa attraverso il confronto con la morte. Nel suo aspetto negativo essa diventa il simbolo dell’isolamento e dell’esclusione, rappresentando il dramma dell’uomo prigioniero dell’angoscia e del terrore, della solitudine e della disperazione .
Tema particolarmente caro all’arte, la raffigurazione del dramma psichico è un tentativo di rendere corporeo quel mondo oscuro e carico di presagi che si muove dietro le quinte di ogni apparenza umana, quel dramma segreto che Edvard Munch (1863-1944) traspose nelle sue opere.

Figura 4: E. Munch, “L’urlo”, 1893

Figura 4: E. Munch, “L’urlo”, 1893

Uno dei pilastri della nascita dell’Espressionismo, “L’urlo” o “Il grido”, del 1893, replicato in diverse versioni, rappresenta una figura molto stilizzata che attraversa un ponte con una ringhiera. Il cielo è color tramonto e questa figura, isolata nel suo dolore, stringe il volto tra le mani, emettendo un urlo (da qui il titolo dell’opera) che deforma il suo volto.
Come osserva Federico Zeri (6), “il grido nasce non perché il personaggio abbia di fronte a sé uno spettacolo orribile o raccapricciante, non perché si senta male (l’atteggiamento delle mani dimostra che è un fatto intimo che lo spinge ad urlare), ma nasce proprio dal senso della propria solitudine, della solitudine in cui vive ciascuno di noi. Un senso che viene accentuato dall’ora del tramonto, il senso disperato della incomunicabilità, dell’essere soli in questo mondo che ripete il proprio ciclo di giorni e di notti, di albe e di tramonti, dentro cui c’è un’umanità che si chiede il perché di tutto questo.”
Ambientato in un esterno, quasi a volerne sottolineare il carattere cosmico più che personale, L’urlo racconta l’incubo che minaccia l’individuo dall’interno, scompaginandone l’identità. Tra le personalità più interessanti del panorama artistico ceco d’inizio Novecento rientra Jaroslav Panuška (Hořovice, 1872 – Kochánov, 1958), pittore ed illustratore di notevole talento che si ispirò a saghe e ballate antiche, a leggende del folklore boemo e a figure leggendarie acquatiche, quali il Vodník. Un motivo frequente nelle sue opere è quello dei mostri notturni, in particolare i vampiri, rappresentati con caratteristiche in parte umane, in parte animali, in stretta affinità con le immagini dell’inconscio. Fantasmi personali che si sommano ai fantasmi collettivi, come sembra suggerire anche l’opera di Max Ernst, la personalità più rilevante e visionaria del Surrealismo tedesco, che amplifica in uno spaventoso scenario d’Ombra, gli orrori dell’inconscio personale e gli oscuri presagi della devastazione bellica.
Impregnata di Morte e immobilismo, l’opera di Ernst recupera il carattere metamorfico delle immagini oniriche, che divengono creature, o meglio elementi da riconsegnare a una coscienza pietrificata e inerte. Secondo Jean Dubuffet: “La vera arte è dove nessuno se lo aspetta, dove nessuno ci pensa né pronuncia il suo nome. L’arte è soprattutto visione e la visione, molte volte, non ha nulla in comune con l’intelligenza né con la logica delle idee” (7).
Quanto più la coscienza dell’autore è estranea allo sviluppo della sua opera, tanto più la sua espressività sarà colma di significati simbolici. E qui emerge chiaramente l’importanza che la Psicologia analitica assegna al simbolo sia in ambito psicologico che in ambito artistico: non più segno, mascheramento, “aliquid stat pro aliquo”, bensì ponte verso una riva invisibile, sconosciuta…
L’ispirazione artistica nasce da una percezione inquieta, profondamente dolorosa della vita, rappresentando, più che una fuga dal reale, una “partecipazione mistica” a quanto esplorato nel profondo. In questa prospettiva il mostruoso si connette inevitabilmente al sacro.
Fortemente influenzato dalle proprie radici culturali haitiane, Jean-Michel Basquiat dialoga ininterrottamente con la dimensione religiosa e animista, attraverso immagini simboliche e arcaiche, adoperate nei termini di “nuovo” primitivismo. Non mancano, nell’attività convulsa dell’artista, i riferimenti alla mitologia greca o romana. In un’opera del 1983, Notary (fig.5), compare ripetutamente la scritta “Pluto”, un riferimento al signore degli inferi (Ade-Plutone), nella sua funzione di dispensatore di ricchezze. Ma il dipinto allude anche alla morte, come sembra indicare la figura scheletrica, e alle sue cause: disidratazione, perdita di energie (dehydrated). Inoltre i rimandi a sanguisughe (leeches) e pulci (fleas) concorrono nel delineare un’autoritratto poliedrico dove emerge inequivocabilmente l’aspetto ctonio.
Le rare immagini femminili di Basquiat (es: Untitled, Venus, 1983 e Arroz con pollo, 1981) ricordano le “Veneri paleolitiche”, mostruose, della preistoria, con forme deformate o irrealisticamente esagerate, reificazioni della Genetrix vitae, la Grande Dea creatrice connessa ai cicli di Vita-Morte-Rinascita. Nelle opere di Basquiat, tuttavia, il femminile sembra emergere nei suoi aspetti minacciosi più che fecondi, lasciando intendere che il confronto con l’Archetipo dell’Anima, sia inesorabilmente connesso a quello della “Madre terribile”, divorante o artigliata.

Figura 5: J-M. Basquiat, "Notary", 1983

Figura 5: J-M. Basquiat, “Notary”, 1983

Il mostruoso nell’arte si estende anche oltre i confini dell’identità, del limite umano. Se nella mitologia la trasformazione degli esseri umani era mediata e imposta dal volere di un dio ed era funzionale al raggiungimento di uno scopo ben preciso, l’immagine corporea che impera nelle arti visive è suscettibile di infinite metamorfosi che sconfinano nell’assurdo. Sottoposto alle infinite manipolazioni scientifiche, che tentano di eternizzarne forma e contenuto, il corpo è il vero mostro-prodigio che riflette nell’arte il suo volto mutante.
Sulla strada tracciata da Ernst e Dalì, Hans Ruedy Giger (1940), l’inventore di Alien , in fig.6, accoglie all’interno della sua opera, ancora in pieno svolgimento, una concezione del corpo che muta col progredire della tecnologia.
Le creature gigeriane, veri mostri biomeccanoidi, attingono la loro essenza “vitale” da reminiscenze lovecraftiane, ma non mancano i riferimenti a Dürer e Bosch nel sovvertire i parametri dell’identità corporea. Mostruosi ibridi, commistione tra organico e inorganico, che recano il segno prodigioso del computer graphico e dell’aerografo, invadono la realtà, connotandola nei termini di un regno permeato di Morte. Lo sguardo dei fruitori dell’opera di Giger penetra oltre la pelle, oltre la linea di confine, inoltrandosi nel nucleo delle nostre cellule. Embrioni ammassati, porzioni anatomiche, voragini abissali, scheletri, “paesaggi ginecologici”, ri-disegnano metaforicamente il ciclo Vita-Morte-Rinascita, riconsegnandoci alla nostra esistenza pre-natale o al nostro cervello “rettilario”, in attesa di una trasformazione.

Figura 6: H.R. Giger

Figura 6: H.R. Giger

Come Giger anche Robert Gligorov (1960) usa nelle sue opere, per lo più immagini fotografiche estreme e sofisticate, il “corpo mutante”, sottoposto a fantastiche ibridazioni, dove risulta difficile tracciare una linea di demarcazione tra umano e non umano, organico e non organico (fig.7).
“Utilizzato come strumento per mettere in discussione la propria identità, per forzare i propri limiti e non solo come rispecchiamento di sé, l’autoritratto è un motivo ricorrente nel lavoro di Gligorov. E’ quasi sempre l’artista, infatti, a comparire nelle sue immagini, soprattutto nelle più disturbanti, come quella della sequenza dove indossa una giacca di carne lasciata progressivamente imputridire…” (8)

Figura 7: R. Gligorov, "Venus' Birth", 2001

Figura 7: R. Gligorov, “Venus’ Birth”, 2001

Ecco dunque l’umano che si aliena da se stesso, partorendo il mostro della disidentità.
Pur nella estrema diversità dei linguaggi espressivi, l’arte si accosta oggi come sempre al multiforme universo psichico. Dai contrasti di Amore e Morte al desiderio di cogliere ciò che si situa al di là dell’apparenza, l’occhio dell’artista riesce a penetrare l’essenza deformata dell’Ombra umana, a definire i contorni dell’incubo, della disperazione, della perdita dell’identità, conferendo loro il potere della trasformazione e dell’integrazione.
E’ probabile che il mostro, una volta rappresentato, cessi di essere un essere terrifico per trasformarsi in un prodigioso evento trasformativo…

Marialuisa Vallino

Note :
1. Octavio Paz, “Luis Cernuda”, da “Vento cardinale e altre poesie”, Mondadori ed.,1998.
2. Jim Morrison, “An American Prayer”, in “Tempesta elettrica”, Mondadori ed., 2001.
3. Per le Opere di Rimbaud si fa riferimento all’edizione “I Meridiani Collezione” della casa editrice Mondatori, 2006.
4. E. A.Poe, “La sfinge”, in “Racconti dell’impossibile”, Newton Compton editori,1994.
5. James Hillman, “Il Sogno e il Mondo infero”, pag.127, edizioni Est , il Saggiatore,1996.
6. Federico Zeri, “Un velo di silenzio”, a cura di M. Dolcetta, pag.198, seconda ed. Rizzoli, 2000.
7. Citato in Lorenza Trucchi, “Art brut”, ERI – Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, Torino 1964.
8. Luca Beatrice, Cristiana Perrella, “Nuova Arte italiana”, pag.147, ed. Castelvecchi,1998.

Artemisia Gentileschi: l’opera pittorica di una donna violata

Artemisia Gentileschi: l’opera pittorica di una donna violata

A. Gentileschi, "Autoritratto come allegoria della Pittura", 1638-39

A. Gentileschi, “Autoritratto come allegoria della Pittura”, 1638-39

A titolo puramente introduttivo del presente articolo è opportuno soffermarsi sul concetto di violenza sessuale, perché l’argomento che affronteremo è stato oggetto di controversie negli ambienti artistici, come dimostrano le varie interpretazioni letterarie e cinematografiche della vicenda di Artemisia Gentileschi.
Di recente, la Corte di Cassazione  ha ribadito il proprio consolidato orientamento in tema di reati sessuali, affermando che (1):
“Il consenso al rapporto sessuale deve essere pacifico e ininterrotto, trattandosi di una sfera soggettiva in cui sono tutelati, nella loro massima ampiezza, la dignità e la libertà, sia fisica che psichica della persona. Infatti in tema di libertà sessuale non è necessario che il dissenso della vittima si manifesti per tutto il periodo di esecuzione del delitto, essendo sufficiente che si estrinsechi all’inizio della condotta antigiuridica; conseguentemente l’imputato non può invocare a sua giustificazione di avere agito in presenza di un consenso dell’avente diritto, quando vi è stata la tempestiva reazione della vittima. Un consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609 bis c.p. la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga poi meno a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso”.
La vicenda personale di Artemisia Gentileschi si situa proprio nella dibattuta area di confine tra consenso e dissenso all’espletamento del rapporto sessuale con persona conosciuta.
Ma chi è Artemisia?
Artemisia Gentileschi è stata definita un’icona del femminismo moderno, ma forse sarebbe più corretto ritenerla una singolare espressione di eroismo femminile, che prende forma da un processo di autonomizzazione dal collettivo. Ma è, soprattutto, una grande artista, una tra le prime pittrici e senz’altro la più originale dell’epoca (XVII secolo), “L’unica donna in italia”, a detta di Roberto Longhi , “che abbia mai saputo cosa sia la pittura” (2).
E infatti, anche coloro che la reputano una “minore” le riconoscono una capacità del tutto peculiare: In Artemisia vi è la scoperta di una grande novità ovvero la dimensione dell’alterità pittorica, un differente modo di rappresentare e di vedere la realtà, fino a quel momento caratterizzata al maschile; un modo espressivo “di genere”, antichissimo, eppure del tutto nuovo, perché fino a lei lasciato nel silenzio. Ed è parte personale della difficile vita di Artemisia, il suo processo, un contrappasso quasi obbligato…
Lei, che per prima ha dipinto volti femminili autentici, strappati alle iconiche interpretazioni maschili, divenendo pura interprete del femminino, viene degradata ad un mero oggetto sessuale.
Esiste, quale appendice sacrilega alla sua vita, il tentativo di raccontare la tormentata vicenda processuale, in modo fantasioso e difforme dai documenti, trasformando una sordida vicenda di stupro in una improbabile storia d’amore preromantica, ma non è infrequente per le “icone” essere sottoposte ad operazioni di deformazione.
Proprio per questo, nella narrazione della vicenda personale dell’artista è necessario mantenere il contatto con i documenti originali, nella convinzione che le grandi personalità non meritino definizioni “sacrileghe” né richiedano “ritratti” celebrativi. Lo sfondo storico è quello che meglio consente di contestualizzare la grandezza di Artemisia perché è lì che emerge il suo coraggio, reso esemplare proprio dal suo status di donna del ‘600: una donna stuprata che può ottenere parziale giustizia solo affrontando un processo infamante ed essendo sottoposta lei, la vittima, ad una dolorosa tortura mentale e fisica. L’interessante documento giuridico (3) ci consente di esplorare come veniva istruito e come si svolgeva in quegli anni un processo: l’uso della tortura, la manifestata volontà da parte degli accusati di proteggere tanto i propri misfatti quanto la propria Ombra nefasta, scaturita, ieri come oggi, da un’identità inintegrata, escludente il carico del confronto con l’altro da sé.
“Ieri in Pretura” potrebbe intitolarsi altrimenti il presente articolo, ma purtroppo scopriamo, con preoccupazione, che i pregiudizi che afflissero gli anni di Artemisia sono ancora oggi vivi, magari inespressi, non più dichiarati e tuttavia presenti nell’inconscio.
Artemisia Gentileschi (4) nacque a Roma l’8 luglio del 1593, da Orazio, pittore pisano dagli iniziali stilemi tardo-manieristi, trapiantato a Roma, e da Prudenzia Montone, che morì quando Artemisia era bambina.
Il padre, in seguito considerato uno dei migliori pittori della cerchia del Caravaggio, totalmente “rapito” dal suo furore espressivo era spesso assente dalle responsabilità della conduzione familiare, affidata essenzialmente alla moglie.
Artemisia fu iniziata precocemente all’attività pittorica e in tal senso la sua formazione iniziò proprio col padre, nella sua bottega in via Margutta: “Dall’età di cinque anni, Artemisia riduceva in polvere i pigmenti, preparava le tele, confezionava le vernici. Con lui la piccola faceva un apprendistato che tutti i suoi allievi avrebbero potuto invidiarle. Francesco, il fratellino, non riusciva a starle dietro. Lei sembrava sempre più svelta, più diligente, più dotata degli altri. Però era femmina. E presto o tardi sarebbe stato necessario separarsene, offrendola a Dio o a un marito. Una femmina che dopo i funerali della madre si ritrovava senza dote, in miseria e nella solitudine”. (5)
Sappiamo che Artemisia iniziò giovanissima le sue prime prove di pittura, incoraggiata e seguita dal padre, che probabilmente vedeva in lei la rivelazione delle proprie abilità di maestro più che di genitore.
Orazio, dopo aver scoperto l’enorme talento della figlia, decise di affidarla all’abilità artistica di Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil, scenografo e pittore, con il quale stava lavorando alla loggetta del cardinale Borghese. Fu così che Agostino entrò nella vita dei Gentileschi, cominciando a frequentare la loro casa, in via della Croce. Violento, truffaldino, invischiato in un numero imprecisato di procedimenti penali, incarcerato ed esiliato più volte, libertino, mandante di diversi omicidi tra cui (pare) anche quello della moglie, debitore incallito, dal quale pretendere un pagamento poteva essere un’impresa rischiosa.
E poi, la più infamante delle accuse per un pittore, quella di aver usato la sua attiva bottega anche come fucina di falsi, confezionati da lui stesso o dai suoi garzoni. Un delinquente, insomma, che però per anni fu una vera e propria stella del firmamento artistico della fine del ‘500 e della prima metà del ‘600. A lui si rivolsero papi e cardinali per affrescare le stanze dei palazzi più prestigiosi della Città Eterna.
La moglie, Maria Cannodoli, era stata stuprata da lui e successivamente sposata. La donna lo lasciò a causa della sua infedeltà, preferendogli un mercante di Lucca. Agostino Tassi era stato infatti l’amante di Costanza, sorella minore di Maria, che aveva accolto in casa come figlia, da che era rimasta orfana. Resosi responsabile della gravidanza della giovane cognata, all’epoca quattordicenne, Agostino aveva indotto un suo allievo, Filippo Franchini, a sposarla, dietro ricompensa di una dote cospicua.
Il legame tra Agostino e Costanza non finì e il pittore visse addirittura in casa Franchini un menage a trois. L’ossessione di Tassi era l’impiccagione, perché egli sapeva che giacere con la sorella della moglie era l’equivalente di un incesto: Roma puniva quel crimine con la morte; se ne faceva carico Paolo V, Camillo Borghese. Agostino fu infatti accusato dalla sorella Olimpia di adulterio e incesto con la cognata, e processato.
Protagonista di più di un processo, il Tassi si accese di passione per Artemisia, che nel frattempo diventava una donna di particolare bellezza e un’artista eccellente. Agostino aveva già sentito parlare della giovane Gentileschi e quando la conobbe iniziò a corteggiarla. Artemisia, pur non essendo indifferente al fascino di quell’artista “maledetto”, dai burrascosi trascorsi, di cui aveva sentito parlare dal padre Orazio, si sottrasse alle insistenti richieste d’intimità di Agostino.
Il 9 Maggio del 1611 l’abusiva protervia maschile del Tassi violò il giovane corpo di Artemisia, fossilizzando, in quell’adolescenza già tormentata per la prematura perdita materna, l’impronta ulteriore di un vissuto doloroso ed ingombrante. Tassi, già suo insegnante di prospettiva e personaggio fin troppo compromesso da una visione fallocentrica ed erotomane, orientata alla funzionalità oggettivata e sessualmente strumentale del corpo femminile (risultando già precedentemente coinvolto in numerosi processi per stupro, atti di libidine violenta e incestuosa), segnò non solo la vita personale dell’avvenente fanciulla, ma anche il suo iter artistico, che recò per sempre la traccia della violenza subita.
Un anno dopo lo stupro, Orazio Gentileschi scrisse una lettera di supplica al papa Paolo V, affinchè venisse istruito il processo contro Agostino Tassi. Nella lettera si fa riferimento anche al furto di un non meglio identificato quadro: “Iuditta, di capace grandezza”. La Garrard (6) ha ipotizzato che il quadro oggetto della disputa fosse la prima raffigurazione del soggetto di Giuditta da parte di Artemisia.
Probabilmente più che la volontà di giustizia fu la rivalità fra artisti e il mancato rispetto della promessa matrimoniale avanzata dal Tassi a spingere il Gentileschi a chiedere al Papa di procedere contro il pittore, il quale aveva “forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più e più volte” la figlia.
Artemisia, un mese dopo il processo, nel novembre 1612, sposò Pietro Antonio Stiattesi, lasciando Roma per Firenze. Abbandonare Roma fu una scelta dolorosa, ma necessaria: l’artista si allontanava da un passato tormentato e da un padre ingombrante, di cui ben presto avrebbe rinnegato il cognome, preferendogli quello dello zio, Lomi.
La Città dei papi era ormai impraticabile per lei, come donna, della quale si sottolineavano continuamente le caratteristiche di licenziosità sessuale.
L’iter probatorio culminò nella drammatica tortura delle “sibille” (cordicelle strette attorno alle dita), inflitta dagli inquisitori ad Artemisia per accertare, secondo la significativa mentalità giurisprudenziale dell’epoca, l’attendibilità della ragazza.
Il reato di stupro veniva in quei tempi considerato e punito secondo i criteri dell’integrità socio-morale più che della dignità della persona e la giovane poteva ricevere giustizia solo se, attraverso procedure “discutibili”, veniva dimostrata l’avvenuta deflorazione, segno tangibile della perdita dell’onore.
Il processo, che durò dal marzo all’ottobre del 1612, vide sfilare un numero infinito di testimoni che pare facessero a gara per mentire. Artemisia e Agostino continuarono a ribadire gli stessi argomenti: lei sostenendo di essere stata ingannata e violentata, lui dicendo che lei mentiva e che era da tutti risaputo che era “donna di malaffare”. Agostino fu condannato, ma non scontò mai la pena né si allontanò da Roma.
Gli atti del processo illustrano non solo la condotta dell’accusato, che coerentemente con i suoi tratti di personalità, mistificò le circostanze dell’accaduto, ma anche i metodi utilizzati per l’accertamento della verità nei confronti della vittima.
Dopo la dolorosa vicenda personale, Artemisia, retta da una dignità esemplare per una donna dell’epoca, cominciò a rielaborare in maniera originale lo stupro subito, che ovviamente fu solo moderatamente attribuito alla violenza del Tassi, dal momento che i più si chiedevano se non fosse stata consenziente ai ripetuti atti sessuali.
Forse Artemisia era realmente innamorata di Agostino, e questo spiegherebbe le allusioni alla sua capigliatura corvina, presenti in alcuni celebri quadri, di epoca precedente al misfatto. Ma basta il sentimento della vittima per decidere delle modalità di consumazione dell’amplesso, della liceità di un atto? Sono interrogativi questi che investono l’area della vittimologia, ma soprattutto la sfera degli affetti privati, che non può mai prescindere dal rispetto altrui.
La pittrice rielaborò personalmente il suo rapporto col maschile, come si evince da due dei suoi più celebri quadri: Susanna e i vecchioni (1610), collezione Schönborn, Pommersfelden (Fig.1) e Giuditta che decapita Oloferne (1620 ?), Uffizi, Firenze (Fig.2)  dove la figurazione narrativa riflette i tratti di un percorso autobiografico.

Fig.1: "Susanna e i Vecchioni"

Fig.1: “Susanna e i Vecchioni”

Fig.2: "Giuditta che decapita Oloferne"

Fig.2: “Giuditta che decapita Oloferne”

In particolare, si osserva l’esplicarsi di un rovesciamento simbolico: Susanna e i vecchioni, infatti, esplicita il reattivo segnale difensivo della fanciulla dall’avvertita minaccia incombente da parte della coppia maschile, mentre le modalità della morte di Oloferne inscenano l’idea di un vendicativo rito sacrificale compiuto da due donne, secondo una sanguinosa liturgia rappresentativa che emula uno stupro, stavolta di oggetto maschile, realizzando così, nel ritmo compulsivo dell’atto omicida, una risposta figurativa altrettanto violenta di quella precedentemente subita.
Non appare dunque casuale l’allontanamento di Artemisia dal racconto della tradizione biblica, che non menziona la figura attiva della fantesca all’esecuzione del generale assiro, quasi a proporre una contingente necessità di alleanza femminile per condurre a termine un inevitabile “proposito di genere”, in una situazione che potrebbe essere definita come l’esigenza di annullare la violenza subita mediante un rovesciamento di prospettiva, dal significato catartico.
“Il colpo di genio è quello di aver messo nel quadro due donne (…) che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere una massa enorme, il cui peso supera le forze di una sola donna” (7). La complicità tra donne, tema ricorrente nell’opera della pittrice, serviva forse a compensare il dolore di un’amicizia tradita, quella per Tuzia, vicina di casa, amica e modella, che durante il processo fu sospettata di favoreggiamento. Se è vero che in “Susanna e i vecchioni” viene documentato l’apprendistato degli insegnamenti di Orazio, per la particolare modulazione di luce ed ombra e per il rigore del disegno anatomico, la postura dei personaggi è un evidente richiamo al Michelangelo della Cappella Sistina (Peccato Originale e Cacciata dal Paradiso terrestre, 1509-1511), anche se la particolare configurazione del femminile lascia intravvedere un vigore espressivo personalissimo, che erompe dalla sfera affettiva. Dal sentire al creare il passo è breve: ogni lavoro creativo si fonda sul presupposto di un coinvolgimento intenso, un’esperienza “sensoriale” che lega il soggetto all’oggetto che andrà a rappresentare. Se poi l’impulso creativo si inserisce in un percorso di rielaborazione personale, come in “Giuditta che decapita Oloferne” è possibile che elementi individuali si sommino ad elementi archetipici, conferendo all’opera un’intensità simbolica universale. Alla base della trasformazione c’è la solitudine che questo processo apre. In solitudine è possibile ‘ascoltare’ l’immaginazione, prestare il tratto alla funzione mitopoietica della psiche.  La vera ‘cura’ è un incantesimo che si realizza quando la dedizione dell’artista all’immaginale, innesca una ‘risposta estetica’ necessaria al risveglio della realtà psichica.
Il vero colpo di genio di Artemisia, forse, consiste nell’aver attinto ad una forza interiore fino a quel momento rimasta inespressa, a causa della supina accettazione di regole e condizionamenti provenienti dall’ambito paterno, che avevano limitato gli orizzonti della sua espressività.
Dalla vicenda dello stupro in poi emerse a viva forza l’esigenza di un’autonomia artistica quanto personale. La stessa autonomia che la indusse a distanziarsi affettivamente dal marito che non amava, per dedicarsi alla coltivazione di se stessa e della sua arte sublime.…

Marialuisa Vallino

Note:

1. Corte di Cassazione – Sezione III penale, Sentenza 29 gennaio 2008, n.4532: Violenza sessuale- Consenso della vittima; inoltre, “Il consenso della vittima agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità”. Così, Corte di Cassazione – Sezione III penale – Sentenza 3 aprile 2013 n. 15334.

2. R. Longhi, “Gentileschi padre e figlia”, in: L’Arte, n.19, 1916.

3-4. Le notizie biografiche riguardanti Artemisia sono tratte da più fonti, tra cui: A. Lapierre, “Artemisia”, Oscar Mondadori, 2000 e Artemisia Gentileschi, “Lettere, precedute da Atti di un processo per stupro”, a cura di E. Menzio, Abscondita ed., 2004.

5. A. Lapierre, “Artemisia”, op. cit, pag.38.

6.Mary D. Garrard, Artemisia Gentileschi The Image of the Female Hero in Italian Baroque Art, 1991.

7.Roland Barthes, Nota su “Giuditta e Oloferne”, in: Artemisia Gentileschi, “Lettere…”, op.cit. pag.150.