Il Sé tra Amore e Morte: Soffio, di Kim Ki-duk

Il Sé tra Amore e Morte: Soffio, di Kim Ki-duk

Regia: Kim Ki-duk
Sogg. e sceneggiatura: Kim Ki-duk,
Interpreti: Chang Chen, Zia, Ha Jeong-woo, Hang In-hyeong, Kim Ki-duk
Orig: Sud Corea,2007

Trama: Yeon vive in una fredda casa modernista con un marito fedifrago e una figlioletta. Ascolta alla Tv di un uxoricida del luogo, Jang Jin, condannato a morte, che ha tentato in cella il suicidio. Decide di andare a trovarlo in carcere, dotandosi di un ricco materiale d’arredo e d’abbigliamento. Ad ogni incontro, che diventa sempre più intimo, allestisce, all’interno del parlatorio, una “stanza della stagione” e canta per Jang Jin una canzone corrispondente. La sua solitudine e  il disprezzo per il marito che la tradisce le permette di reinventare la sua esistenza in un altrove dalla sua casa. Il loro rapporto viene controllato dal direttore del carcere, che interrompe a suo piacimento i loro incontri. Nell’ultimo incontro, con un bacio, Yeon tenterà di strappare al suo amante la vita…

Un bacio ad alto voltaggio è l’ennesima trovata (quattordicesimo lungometraggio) del regista coreano, genio indiscusso della settima arte, la cui cifra distintiva lo inserisce a pieno titolo tra i più abili “alchimisti” dell’immagine. Realismo fantastico direbbe lui, per connotare il suo stile espressivo. Noi ci limitiamo a cogliere nel suo straordinario talento il ricorso continuo ad un “manuale di simbologia” che amplifica il dato reale per nutrirlo di ulteriori immagini che ne aumentino il volume e lo spessore e ne liberino la fecondità.
Già nel titolo è suggerita la dimensione simbolica presente nella trama. Un universo surreale, sorretto da alcune geniali invenzioni visive è quello dove si muovono Yeon e Jang Jin. Un altro uomo, un’altra donna che ripercorrono, seppure in ordine inverso, i destini di Sun- hwa e Tae-suk (Ferro 3), dando vita ad una relazione tanto intensa quanto improbabile. Anche qui, come nei film precedenti, di cui ci siamo già occupati, rimane inalterato il bisogno di creare nuovi movimenti affettivi, capaci di scardinare i vincoli imposti o subiti dal collettivo.
Il collettivo è all’interno della dimensione coniugale di Yeon, sposata ad un uomo che la tradisce e non esita a liquidare l’amante con una “correttezza” tanto ovvia da apparire grottesca. Il collettivo è all’esterno di questa famiglia: nel suo gelo, nella sua squallida e vuota routine che assembla le vite degli altri con una ritualità ossessiva e priva di senso. Il collettivo è lo sguardo voyeuristico che spinge fuori da sé il bisogno di ricomporre in unità la propria ineludibile solitudine.
Dopo, forse, c’è l’individuale, quel che resta a chi non osa incominciare una nuova vita e tuttavia ripercorre le tappe del proprio essere al mondo, nel tentativo di costruire una dimensione altra rispetto a quella reale. Al centro, una donna, un’artista, che come Pigmalione, delusa da una vita insignificante, cerca nell’arte scultorea un senso e un progetto da trasferire successivamente in una sequenza di atti cui l’opera d’arte sembra velatamente accennare…
Tra i due estremi, l’individuale e il collettivo, c’è il Sé, quel nucleo profondo e inviolabile della Personalità, che contiene in nuce il graduale cammino di autoconsapevolezza. Yeon, qui come altrove, non è tanto una donna, ma è una personificazione dell’Anima, l’altro polo di cui la Personalità maschile ha bisogno per la sua progressione. Yeon è il tramite perfetto tra dannazione e redenzione, tra desiderio e destino, tenerezza e violenza, Vita e Morte.
Tra la vita e la morte, un bacio. Un soffio, un respiro, la psiche, l’anima, seguendo il titolo etimologicamente. Il significato originario della parola ‘psiche’ deriva dal verbo greco psychein (soffiare) e letteralmente significa qualcosa che è assimilabile al respiro. Nel film, Soom in coreano, sembra esserci  una velata allusione alla pratica biqi detta del  grande giro, un esercizio taoista che consiste nel trattenere il respiro il più a lungo possibile, al fine di eliminare i “blocchi” che, secondo questa teoria, sarebbero all’origine di una qualsivoglia malattia. Seguendo una chiave di lettura psicologica, il soffio di vita che Yeon insuffla nel suo amante è anche soffio di morte, perché nell’atto di sospensione del respiro vitale c’è l’esercizio che consente di accostarsi all’immortalità. L’apnea è una sorta di disgregazione della dimensione corporea che consente di accedere alla natura reale della mente. Vita- Morte- Rinascita sembrano essere le tre tappe cui il cineasta coreano sembra alludere, dal momento che il soffio che unisce i due amanti si inserisce in un destino di redenzione reciproca. Grazie a Yeon, il condannato a morte prende coscienza del ciclico alternarsi delle stagioni della vita: primavera, estate, autunno e inverno, che qui come altrove rappresentano 4 stadi del divenire. Jang Jin sembra non possedere memoria né vitalità e la sua esistenza prende le mosse solo con l’ingresso inatteso di Yeon. E’ questa figura femminile, che lascia ad ogni passaggio un segno tangibile della sua presenza, a conferire senso e spessore alla vita del condannato. Presenza e assenza, tracce indelebili e tuttavia soggette alla legge dell’impermanenza. Le foto che Yeon lascia al suo amante vengono a questi sottratte dai compagni di cella, così come l’allestimento della stanza della stagione, che sembra connotarsi nei termini di uno spazio sacro, viene di volta in volta distrutto e buttato via.  La felicità non deriva tanto dalle cose materiali, quanto piuttosto dalla lenta acquisizione del principio di non-attaccamento e di impermanenza che permette appunto di poter sospendere gli eventi all’interno della vacuità. “Un giorno, alla nostra morte, perderemo tutti i nostri beni, il potere, la famiglia, tutto. La libertà, la pace e la gioia nel momento presente sono le cose più importanti che abbiamo, ma senza una comprensione risvegliata dell’impermanenza non ci è possibile essere felici…Se avessimo compreso davvero che la vita è impermanente, faremmo tutto il possibile per rendere felice l’altra persona già qui e ora…” (Thich Nhat Hanh, Il segreto della pace, Oscar Mondatori, Milano, 2003).
Qui, come in Ferro 3 la prigione non è tanto una limitazione della propria libertà, quanto piuttosto l’occasione per ripensare se stessi, vivendosi nell’attimo presente e nel presente cogliere l’inesorabile compiersi del destino individuale. Ma c’è qualcosa nella vita che contempla già l’idea della morte, nel soffio, che è anima allo stato puro. Seguendo l’impostazione junghiana, Yeon potrebbe rappresentare una mediatrice dell’ignoto, la personificazione di un segreto disegno che sembra riflettere una superiore conoscenza delle leggi della vita. In questo essa è Anima: è anima mundi, ma è anche la mediatrice del passaggio in una sfera di rinascita per la vita di Jang Jin. La metafora del condannato a morte esprime in Kim Ki-duk  la condizione di prigionia dell’Io e in tutti i suoi film questo stato presuppone la possibilità di un riscatto, anzi la esige. La donna, allora, è per l’uomo una porta verso l’interno, e in questo è giustificato il ricorso al soffio, l’intensa consapevolezza che all’interno sta la vita quanto la morte. Jung definisce Anima “l’archetipo del femminile” e “l’archetipo della vita”, e traccia inoltre un’analogia tra Anima e lo Yin e l’anima p’o dei cinesi; tra Anima e i concetti indiani di Māyā e Śakti; infine la collega con la Sofia degli gnostici, amplificandone la gamma emotiva e riferendola ad una vita che proietta fuori di sé la coscienza, una vita che è dietro la coscienza. Anima diventa così “la portatrice primordiale della psiche, ovvero l’archetipo della psiche stessa”( James Hillman, “Anima”, Gli Adelphi, Adelphi ed. Milano, 2002).
Il direttore del carcere rappresenta il mediatore tra la realtà individuale e quella collettiva, l’istanza di controllo, ma anche la legge del Tempo storico, cronologico, che può portare a compimento o, al contrario, interrompere drasticamente gli eventi, lasciandoli in uno spazio indefinito. Il soffio è l’accesso ad un altrove che è oltre lo spazio e il tempo; è il Tempo individuale che ricrea l’universale, secondo una legge interna, che nella Vita anticipa la Morte, confermando solennemente l’Eternità.

Marialuisa Vallino