L’accertamento peritale in relazione all’imputabilità e pericolosità sociale

L’accertamento peritale in relazione all’imputabilità e pericolosità sociale

L’accertamento peritale in relazione all’imputabilità e pericolosità sociale in soggetti di maggiore età [1]

Secondo il Codice penale (art. 85): “E’ imputabile colui che ha la capacità di intendere e volere”, pertanto ci si riferisce alla capacità, da parte del soggetto, di rendersi conto del valore sociale degli atti compiuti. La colpevolezza costituisce il presupposto per l’applicabilità della pena.

Il Giudice può, in fase di cognizione od esecutiva, in base alla natura dei quesiti, incaricare un esperto psicologo o psichiatra ed autorizzarlo a svolgere accertamenti su un indagato, imputato o condannato.

Esempi di quesiti in ambito penale:

“Dica il perito se l’imputato, in relazione alla patologia dalla quale, stante la documentazione acquisita, è affetto, sia capace di stare in giudizio”;

“Dica il perito, utilizzando tutti gli strumenti diagnostici a sua disposizione, se l’imputato fosse capace di intendere e di volere al momento del fatto, tenuta presente la natura del reato a lui contestato” (l’imputabilità deve sussistere al momento della commissione del fatto; non importa che essa venga meno dopo, o non ci fosse in un momento antecedente [Cass. 21826/2014]);

“Dica il perito se l’imputato sia da considerarsi socialmente pericoloso ai sensi dell’art. 203 c.p., se cioè appaia probabile che nel futuro commetta fatti preveduti dalla legge come reati” (L’articolo 203 c.p. definisce il delinquente pericoloso […] la persona che, anche se non imputabile o non punibile, ha commesso taluno dei fatti indicati, ed è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati).

Il perito: il giudice nomina il perito scegliendolo tra gli iscritti in appositi albi o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina (art.221. 1. c.p.p). L’accertamento delle condizioni psichiche del periziando, se da un lato deve fornire indicazioni precise su facoltà quali (ad es.) la comprensione degli eventi processuali, dall’altro deve essere “ricollocato” in una dimensione temporale ben precisa, il momento del fatto, e la personalità deve essere valutata non solo nell’hic et nunc, ma anche in relazione a comportamenti messi in atto in passato e ad altre manifestazioni che abbiano un valore predittivo. Diagnosi categoriale” e “funzionale” sono due aspetti complementari ma distinti che non debbono essere confusi l’uno con l’altro o riassorbiti l’uno nell’altro. Occorre precisare che in termini psicopatologici o criminologici il comportamento umano viene comunemente identificato come conforme, difforme, deviante, delinquenziale, patologico ed analizzato secondo i sistemi nosografici categoriali più accreditati. Il comportamento di un individuo, in termini strettamente psicologici, è espressione del suo funzionamento in un preciso contesto esistenziale e in un determinato periodo della sua storia individuale, ma è anche rivelazione del suo “stile di vita”, unitario e coerente con aspetti strutturali, organizzativi e funzionali del suo “essere nel mondo”. L’insieme di sintomi e di segni presentati dal soggetto (e annotati dall’osservatore) sono i mezzi, gli strumenti, le strategie che il soggetto traduce in comportamenti e attraverso i quali manifesta il suo stile di vita, il suo funzionamento. L’infermità (da in-firmus = non-fermo) in senso psicopatologico-forense non individua un “disturbo mentale”, ma i riflessi di questo sul funzionamento psichico del soggetto e quindi sul suo comportamento. L’accertamento peritale di un individuo deve necessariamente avvenire attraverso la raccolta di dati anamnestici, l’analisi del comportamento verbale e non verbale, l’esame delle varie funzioni e il loro impatto sulla realtà esterna, e non può quindi essere effettuato solo sulla presenza/assenza di determinati sintomi. A tale proposito, occorre puntualizzare che sul piano psicodinamico un sintomo ha non solo una sua ‘peculiarità’, ma è da considerarsi l’espressione simbolica di una particolare costellazione interna che, in quanto ‘personale’, può rendere adattiva/disadattiva la risposta dell’individuo alle richieste provenienti dall’ambiente esterno. “Individuo”, etimologicamente, presuppone la capacità di essere in-diviso, ma paradossalmente la ricerca di unità e autenticità individuale si scontra con la pressione verso l’omologazione, l’identità collettiva. Ecco allora il disagio, il disadattamento, la “malattia”, l’incapacità talvolta manifestata nel definire se stessi in relazione alla realtà esterna. Intendere e volere, seppur da ritenersi come capacità disgiunte, diventano i due parametri che permettono di a) comprendere in che modo e misura esista una differenziazione tra sé e non sé, nonché b) di cogliere il valore adattivo e flessibile delle azioni. Al termine “normale” è preferibile quello di “funzionale”; per quel che attiene all’ambito criminologico, gli esperti si trovano a dover formulare giudizi in merito alla presenza o meno di un disturbo che possa aver provocato in un autore di reato un comportamento criminoso, o sulla eventualità che lo stesso individuo possa compiere in futuro gesti pericolosi.

La capacità di intendere: 

E’ l’attitudine del soggetto a conoscere la realtà esterna, ciò che si svolge intorno a lui e di cogliere il valore sociale positivo o negativo dei suoi atti; essa presuppone l’idoneità psichica di comprendere o discernere le proprie azioni od omissioni ed i motivi della propria condotta.

La capacità di volere: 

E’ l’attitudine del soggetto a determinarsi in modo autonomo, a scegliere tra i motivi coscienti in vista di uno scopo, a comportarsi coerentemente con tale scelta (maturata al vaglio dei poteri di critica e di giudizio), resistere agli stimoli d’avvenimenti esterni ovvero capacità di auto-inibirsi. In estrema sintesi, la persona deve essere valutata in relazione alla sua sfera cognitiva, affettiva e volitiva.

L’accertamento dell’imputabilità avviene generalmente in un tempo significativamente posteriore al momento del fatto reato. Si fa divieto di uno studio psicologico sulle caratteristiche di un individuo “sano” ovvero sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche (c.d. “divieto di perizia”, art. 220 c.p.).

Si riportano di seguito i criteri valutativi comunemente utilizzati per l’accertamento delle capacità su menzionate e di solito indagate in ambito penale:

Secondo Roesch, Zapf e Hart (2010) la competenza a stare in giudizio può essere definita come la capacità dell’imputato di comprendere i procedimenti legali a suo carico e di essere pertanto in grado di assistere e partecipare alla sua difesa.

Elementi per la valutazione della capacità di stare in giudizio:

  • Comprensione del procedimento giudiziario per i reati contestati,
  • comprensione della portata antigiuridica ed etica dei reati di cui il soggetto è imputato,
  • possibilità di rispondere a domande, di colloquiare e di collaborare alla propria difesa,
  • assenza di deterioramento mentale e/o deficit mnesici (di natura organica),
  • assenza di un’infermità mentale che infici le “potenzialità” difensive,
  • assenza di disturbi somatici che possano compromettere le capacità mentali,
  • esame di realtà non compromesso (la presenza dell’esame di realtà è necessaria alla volontà e pianificazione del passaggio all’atto),
  • capacità di critica e giudizio non deficitarie.

Elementi per la valutazione della Pericolosità Sociale (rientra in due momenti diversi del procedimento penale: nella fase di cognizione ed in quella esecutiva)

  • Diagnosi: carattere cronico o acuto del disturbo e sua espressività,
  • destrutturazione della personalità,
  • eloquio e comportamento disorganizzati,
  • correlazione tra disturbo e comportamenti criminosi,
  • progressione nelle condotte auto ed etero-distruttive,
  • caratteristiche dell’ambiente familiare e sociale.

(Elementi di) Predittività: 

  • Progressione/remissione delle condotte antisociali,
  • “compliance” (alta/bassa) ai protocolli di cura,
  • possibilità/impossibilità di effettuare terapie farmacologiche ed usufruire di cure specialistiche, di supporto socio-assistenziale,
  • fattori “ambientali”, quali ad es. il contesto deviante,
  • presenza/frequenza/assenza di comportamenti aggressivi e/o reati pregressi,
  • presenza/assenza di episodi recenti o pregressi di violenza,
  • presenza/assenza di uso/abuso di sostanze,
  • presenza/assenza di danni neurologici.

Tra i Fattori Predittivi di Violenza rientrano:

  • Idee di violenza (soprattutto desideri di aggressività, sentimenti di avversione nei confronti di una persona specifica),
  • osservazione del comportamento del periziando durante il colloquio (soprattutto: crescendo progressivo dell’attività psicomotoria; aggressività verbale, turpiloquio, disconoscimento dell’autorità dell’operatore),
  • scarso controllo pulsionale.

Secondo Ugo Fornari “un giudizio di pericolosità sociale psichiatrica può basarsi: 1) sulla presenza di una sintomatologia psicotica molto florida e riccamente partecipativa a livello emotivo, con assoluta assenza di consapevolezza di malattia; 2) oppure sull’accertamento di un grave deterioramento o una grave destrutturazione psicotica della personalità, con o senza pluriricoveri o plurirecidive; 3) notizia di uno o più scompensi comportamentali ravvicinati, sia in senso ‘auto’ che ‘etero’ distruttivi; 4) progressione di gravità nelle condotte di scompenso; 5) scarsa o nulla risposta alle terapie praticate, purché adeguate e purché non si tratti di simulatore; 6) necessità di protezione del malato e della società dagli acting-out che i disturbi psicotici hanno indotto e probabilmente, se non certamente, indurranno” [2].

Il problema della pericolosità sociale in termini psicopatologici è cosa diversa se la si mette in relazione con un reato che contempli la presenza di agiti aggressivi (eterolesivi) di una certa entità o con un reato dove tali agiti non siano affatto presenti o dove il mancato controllo pulsionale non costituisca la “causa” prevalente del fatto-reato. La pericolosità sociale prevista dall’art. 203 c.p., per esempio, non riguarda espressamente la probabilità che il soggetto possa mettere in pericolo la vita altrui, ma concerne la probabilità che egli possa nuovamente commettere un fatto-reato. Per persona socialmente pericolosa può intendersi una persona che può mettere in pericolo i valori della convivenza sociale. La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133 – Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena-. Periti e consulenti devono aver ben presente che una cosa è la nozione di pericolosità sociale psicologica/psichiatrica e cosa ben diversa è la pericolosità sociale giuridica, il cui accertamento, nella sua dimensione prognostica, deve rimanere compito di esclusiva spettanza del magistrato. Dopo queste osservazioni, occorre puntualizzare che non esiste una correlazione univoca tra diagnosi e vizio di mente (incapacità). L’infermità giuridicamente rilevante è costituita dalla confluenza di un disturbo funzionale che interagisce con un disturbo mentale, al punto di compromettere in concreto la capacità di autodeterminazione del soggetto, incidendo in maniera rilevante sulle funzioni autonome dell’Io (il “quid novi” o “quid pluris”) e conferendo in tal modo “significato di infermità” all’atto agito o subito (lo stesso ragionamento psicopatologico forense vale infatti anche per la vittima di reato). Il problema che si pone preliminarmente ai fini dell’individuazione della (in)capacità di intendere e di volere non è tanto quello di un corretto inquadramento diagnostico nosografico, ma quello ben più complesso di “funzionamento mentale” e di chiara connessione di questo con il reato. Il rischio di recidiva deve fondarsi sulla persistenza di condizioni personali e sociali agevolanti la criminogenesi. Alcune condizioni psichiche o organiche riducono ma non escludono la capacità di intendere e di volere. E’ cosa differente se il fatto (ad es.) viene commesso in stato di cronica intossicazione da alcool e/o stupefacenti o se l’alterazione psichica indotta dall’assunzione di dette sostanze è preordinata al fine di commettere un reato. Si tratta di un’ ipotesi di actio libera in causa, stato di incapacità preordinata, riconducibile ad un precedente atto di volontà del soggetto, che non fa venir meno la colpevolezza. Relativamente alle dimensioni diagnostiche, con sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005, depositata l’8 marzo 2005, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno stabilito quanto segue: “anche i disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli articoli 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa; per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre “anomalie caratteriali” e gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo”. Pertanto, in base alla sentenza, un disturbo della personalità, se produce una condotta incontrollabile ed ingestibile, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo sui propri atti, di indirizzarli di conseguenza, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autodeterminarsi liberamente ed autonomamente. Per tale accertamento, il giudice deve procedere avvalendosi del contributo di un esperto e di ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali. Come osserva Fornari, anche in presenza di un disturbo di personalità grave, se la genesi (progettazione) e la dinamica (esecuzione) del comportamento criminale indicano che -nello svolgimento complessivo e nel resoconto retrospettivo dello stesso- l’autore ha conservato e conserva, sostanzialmente indenni le aree funzionali dell’Io deputate alla comprensione del significato del suo atto e delle conseguenze dello stesso (funzioni percettive, organizzative, previsionali, decisionali ed esecutive), non si può concludere nel senso dell’esistenza di un vizio di mente. I disturbi di personalità di cui si parla nella citata sentenza devono quindi essere severi al punto da determinare una situazione di assetto psichico “incontrollabile” tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi. Indipendentemente dalla precisazione diagnostica, tanto più grave è la compromissione psichica, meno strutturate le difese, più diffusa l’identità e compromesso l’esame di realtà (c.d. scivolamenti psicotici), tanto più incoordinato e non pianificato sarà il passaggio all’atto, sia nelle premesse, sia nel suo estrinsecarsi, sia nella condotta immediatamente successiva. Il “valore di malattia” o il “significato di infermità” (in connessione al reato) possono ricondursi alla presenza/assenza dei seguenti indicatori:

  • Presenza di fattori stressanti che precedono lo scompenso;
  • frattura rispetto allo stile di vita abituale;
  • evidente sproporzione della reazione;
  • compromissione dello stato di coscienza e presenza di dismnesia;
  • disturbi della percezione;
  • idee deliranti non organizzate;
  • gravi turbe dell’affettività e del tono timico;
  • comportamento disorganizzato.

Il comportamento disorganizzato, in particolare, rientra tra i sintomi identificativi dell’incapacità di intendere e di volere, oltre a costituire un fattore predittivo, insieme alla presenza di agiti aggressivi, della pericolosità sociale in relazione a fatti reati che contemplino un pericolo per la vita altrui.

Aspetti metodologici:

L’esperienza clinica sottolinea di continuo l’impossibilità di riferire con certezza dei quadri sintomatici ad una diagnosi precisa, se non a seguito di ripetuti incontri, perché è la durata dei sintomi che può meglio orientare la diagnosi. Quando occorre valutare certificazioni, senza voler assolutamente dubitare dell’indiscussa competenza professionale di altri, che costituirebbe una violazione dei principi deontologici, alcune note discordanti in ambito diagnostico-terapeutico possono semplicemente essere interpretate come sovrapponibilità di quadri, perché non sempre è possibile far rientrare un quadro sintomatico nei sistemi nosografico-descrittivi. In molti casi, non è possibile effettuare con certezza una diagnosi se il comportamento del soggetto in esame non viene riconosciuto nei termini di una modalità stabile di funzionamento o di una condizione acuta. Laddove si renda necessario individuare nel dettaglio il funzionamento cognitivo, ideativo e affettivo di un individuo, solo la comparazione dei dati di vari test può orientare l’esaminatore nella formulazione del giudizio diagnostico. Preme sottolineare che la psicodiagnostica testistica richiede una lunga formazione e non necessariamente rientra tra le competenze specialistiche dei professionisti delle cure (psicologi o psichiatri o psicoterapeuti). Inoltre, è prassi consolidata che in determinati ambiti la valutazione psicometrica spetti a figura diversa dal perito o consulente (anche se esperto in psicodiagnostica), al fine di garantire allo stesso un’autonomia decisionale nell’analisi generale dei dati. I risultati emersi dai test devono essere equiparati, preferibilmente in fase conclusiva, ad altri indici diagnostici, desunti dai colloqui, proprio per individuare la presenza di concordanze o eventuali discordanze. L’esperto incaricato può avvalersi delle risultanze ai test di livello, di personalità; frequente, in ambito valutativo, per l’accertamento della pericolosità sociale, il ricorso al test PCL-R-Hare Psychopathy Checklist Revised (valutazione della psicopatia), e al HCR-20 V3-Assessing Risk of Violence, per indagare il rischio di recidiva di un crimine violento. Nella formulazione dei suoi giudizi, il perito deve tentare di ricondurre i dati emersi verso un quadro descrittivo del funzionamento mentale/comportamentale del periziando in vista della risposta ai quesiti posti.

Marialuisa Vallino

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[1] L’imputabilità del minore è subordinata ad un criterio cronologico: fino a quattordici anni il minore non è mai imputabile, perché nei suoi confronti è prevista una presunzione assoluta di incapacità (art. 97 c.p.); fra i quattordici e i diciotto anni il minore è imputabile solo se il giudice ha accertato che al momento del fatto aveva la capacità di intendere e di volere (art. 98 c.p.). Nello specifico, l’art. 98 c.p., stabilisce che «è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva la capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita». Il Tribunale per i Minorenni competente per territorio dovrà quindi accertare se il minore sia imputabile sotto il profilo del raggiungimento dei quattordici anni e sotto quello della capacità di intendere e volere.

[2] UGO FORNARI, “Compendio di psichiatria forense” UTET, Torino 1989.