Ultimo desiderio: Eros e Pothos… fino alla fine del mondo

L’epitaffio sulla tomba del poeta T.S. Eliot recita: in my beginning is my end, in my end is my beginning. Una citazione, all’inizio di questo articolo, serve per inquadrare il discorso sulla grandezza e i limiti dell’Io, a volte perso nell’universo dei simboli, altre volte perfettamente incastonato nella propria realtà psichica, a contatto con quella “personalità di grado superiore” (Jung), quel gioco di luce e d’ombra che permette di forgiare la realtà. Partendo dai due termini, fine e principio, che già Eraclito aveva posto in una relazione di circolarità, possiamo introdurne un altro, desiderio. Etimologicamente de-siderio fa riferimento ad uno stato di privazione (de-sidus) e alla conseguente attesa. Il termine sembra derivare dalla pratica di osservazione del cielo stellato, da cui gli aruspici traevano, lo sguardo avido sul firmamento, indicazioni per le loro profezie. Il cielo coperto attivava un desiderio delle stelle, che proseguiva sino al loro riapparire. Il desiderio è da intendersi come una tensione interiore verso una prospettiva che è insieme nostalgia e ricerca, qualcosa che tra fine e principio, apre un varco nell’infinito. Psicologicamente, dobbiamo chiederci se non sia proprio la fine di questa dimensione desiderante, questa sospensione tra ciò che c’era e non c’è più, o non c’è ancora, a determinare quella che ormai sembra profilarsi come una inesorabile spinta autodistruttiva. Il malessere individuale insorge quando i bisogni profondi non trovano un valido canale d’espressione, quando il desiderio non è più in grado di tracciare un percorso di senso tra il presente e il futuro, costringendo l’individuo a confrontarsi con una realtà mortifera. Nell’inconscio collettivo, l’Apocalisse, se intesa come archetipo, traccia un duplice sentiero, quello catastrofico  e  quello rivelatore. L’uomo dovrebbe imparare a guardare non tanto in direzione del cielo stellato, per ricevere risposte illuminanti, ma nei segreti recessi dell’anima, perché è lì che il Sé si rivela. Si giunge a toccare veramente se stessi solo per “necessità”, quando la vita si approssima alla fine, presunta o reale, quando non è più possibile aggrapparsi alle proprie certezze razionali. La via della psiche non segue necessariamente il piano di realtà, ma il filo dei simboli. E anche in previsione dell’ultimo atto, l’inconscio offre risposte risolutorie.

Evidentemente l’occasione serve a liberare ulteriormente i sogni proibiti di uomini e donne, a mettere in moto meccanismi altrimenti sopiti o semplicemente usati per abitudine e trasformarli nell’incommensurabile “Ultimo Desiderio” (1).

Cosa accade quando il pensiero di una fine qualunque invade l’Io, e quali strategie adattive può mettere in atto l’uomo? Esiste una risposta consolatoria? Eros, all’approssimarsi dell’ultimo atto, che forma assume?

Tre donne e tre uomini, sei scrittori, allestiscono scenari immaginari e vi inseriscono brevi ma vibranti frammenti esistenziali, sempre in bilico tra dramma e commedia, ricerca interiore e sogni inespressi. L’occasione è la previsione apocalittica dei Maya e il conseguente rimaneggiamento dellhorror vacui attraverso la funzione trascendente. Dodici storie che raccontano l’ultimo desiderio, in una doppia prospettiva, a partire da quella del proprio genere di appartenenza per poi scivolare in quella opposta, e dialogare in profondità con quella controparte sessuale inconscia introdotta da Jung (2). Gli autori Eva Clesis, Berarda Del Vecchio, Gabriella Genisi, Michele Marolla, Michele Monina e Alberto Selvaggi ci ricordano che porsi all’ascolto di se stessi significa accogliere la propria individualità e riappropriarsi di una potenzialità mai sufficientemente utilizzata. Un modo di essere altro da sé, che passa anche attraverso il tradimento: quello attuato da Nicoletta, “per noia, per ripicca, per sentirsi viva”(3) quello consumato sul filo di un’improbabile fine del mondo, “in una specie di ultimo inno alla vita”(4), quello che culmina nella morte simbolica, quale eroico tentativo di riscatto di un’identità negata (5). E poi c’è il patto segreto tra due persone che si ritrovano insieme, per passione o per calcolo, o perché non c’è più tempo (6) o ancora per irretire l’altro nella propria dimensione amorosa, nel proprio sogno, sfidando il tempo e la sorte (7).

Solo grazie alla perdita di qualche certezza è possibile vivere l’esperienza dell’ apokatástasis, cioè la ricostruzione di ciò che è alla base dell’archetipo. Il Sé ci spinge in direzione di un continuo rinnovamento che, come un  fiume in piena, irrompe nella coscienza, abbattendo le resistenze dell’Io.

E questo è particolarmente vero quando l’identità non persegue una logica individuale, ma emerge come Atena dalla testa di Zeus. Ad immagine e desiderio di un altro. Michele Monina descrive magnificamente il riscatto della soggettività che passa attraverso il crollo delle illusioni d’amore.

Una storia d’amore è sempre una partita a quattro, in cui entrano in scena gli aspetti “di genere”, maschili e femminili, ma anche quelli che riguardano “l’altro” da sé. E i vari personaggi, ora reali ora fantastici, non fanno che amplificarne la portata simbolica…

Molte volte la realtà interiore del partner viene vissuta solo sul piano inconscio, e sono le immagini interne a ricreare gli equilibri nella realtà. Questo sembra volerci dire Alberto Selvaggi nei due suoi racconti speculari incentrati sui personaggi di Vittorio Santo e Antonia Sinistra che, già nei nomi, recano i segni che li caratterizzano.

Da sin: Marolla, Selvaggi e Mingo al Festival "Il libro possibile"

Da sin: Marolla, Selvaggi e Mingo
al Festival “Il libro possibile”

Qualche domanda all’autore:

D: Qual è il percorso interiore che porta a tradire? Mi riferisco all’accezione originaria di “consegnare”, privata quindi della connotazione negativa che noi oggi conosciamo.

R: Credo tragga origine da un odore e da un senso di morte che impone la direzione univoca al cambiamento, che si raggiunge consegnando il proprio spirito allo stato rigenerativo nella violenza del caos. Del caos livellatore e generatore nel vacuo, caos che è anche amore creatore, in senso financo religioso.

Probabilmente il caos di cui parla Selvaggi, è quella realtà unitaria simbolica cui alludono alcune cosmogonie: nella sua accezione originaria e priva delle connotazioni “patologiche”, che vanno affrontate in altri contesti, il termine non significa affatto confusione o mescolanza, e la stessa parola Chaos indicava inizialmente lo spazio cavo, spalancato, una porta sul mondo. Anche in Esiodo Caos non è tanto una divinità, quanto un vuoto spalancarsi, “il luogo dove le cose vengono a sussistere” (8).

D: Esiste una segreta simmetria tra Vittorio e Antonia?

R: Ho tratteggiato queste due figure, il marito grigio, succubo e senza qualità, e la moglie in posizione deviante dominante, sulla base di una semplicistica, riduttiva complementarietà sado-maso, immersa in un’atmosfera raggelata, quasi inumana. L’ho fatto d’istinto, senza aver stilato alcun piano narrativo.

Selvaggi precisa di aver descritto questa coppia “mediante una lingua disincantata, dinamica, emozionale, fluente nello stesso magma nel quale pescano in sostanza gli studiosi della mente umana”, evidenziando anche il “limite” dei terapeuti nell’afferrare completamente “quanto si genera nel setting”. Aspetto ben noto, che anche Aldo Carotenuto, da analista esperto, aveva con umiltà evidenziato.

Nelle sue pagine l’autore ha inteso raffigurare “in commistione perpetua, trasognata, conscio e inconscio, realtà e abisso psichico. “Per me (spiega Selvaggi) è stato un test, un provino letterario di un ipotetico romanzo fantastico, sdrammatizzante, psichedelico e ridanciano a tratti, che sto sviluppando in questi mesi sulle stesse tematiche, sul viaggio psicoterapeutico, e che si è già evoluto, negli scritti che spargo confusamente per casa, in una colata lavica che è l’esplosione vulcanica delle profondità dell’amore. L’amore che è tutta la vita.”

D: Come ha suddiviso gli svolgimenti dei due racconti speculari su Vittorio Santo e la moglie Antonia Sinistra?

R: Anche qui ha deciso l’intuito, a prescindere dai risultati. Cioè la scelta di un lampo. Il primo racconto, dalla parte di lui, celebra i principi filosofici, quindi religiosi, morali, nonché della tradizione letteraria della ricerca della propria vera natura, che è il bene, bene in sé. E’ una tirata, in qualche passo struggente, nel dolore su questa necessità inderogabile. Il secondo racconto, dalla parte di lei, disvela, o rilegge, o reinterpreta questo percorso di filosofie, di pensiero greco puro, nell’iper-realtà del percorso psicoterapeutico, svelato per metafore: la segretaria contabile, la Cosa rocciosa del fumetto Fantastici Quattro della Marvel che è il terapeuta, la Donna Invisibile psichiatra del lavoro in tandem, e altre trovate irreali. Che francamente non so quanto valgano. Ma sono state partorite così. Amen.

D: I lettori saranno un po’ sorpresi di scoprire il Selvaggi che emerge attraverso questo libro che seduce e travolge, come sempre, ma è anche in grado di cogliere la contraddittoria realtà della vita, mediante un tocco di humour “elegante”, mai sovraccarico, e dispensato “con mano leggera”…

R: Sì. E’ accaduta un’altra cosa abbastanza impressionante, per quanto mi riguarda. Non appena ho iniziato a buttar giù, tanto per, a caso, e quando capitava, senza un progetto editoriale concordato, che poi non so affatto se condurrò a termine, anzi, pagine del suddetto futuro romanzo psicanalitico, irrefrenabili come gorghi di fiume, meglio, come onde che si accavallano e si richiamano senza soluzione di continuità, ho assistito a una mutazione evidente del mio stile di scrittura. Che ho riconosciuto, o ammesso, soltanto dopo molte settimane. O mesi. E che corrisponde magari al caos aurorale di una mutazione interiore vitale che evidentemente si era già attivata. Con una rapidità spaventosa. Totalmente imprevista, completamente inattesa dal mio intuito, pur solitamente sviluppato fino al femminino, o quasi.

D: Quindi, in sostanza, ne arguiamo che è in atto un tradimento di Selvaggi, nei confronti di Selvaggi, o è un’apertura verso un nuovo, decisamente più interessante linguaggio espressivo?

R: E’ ambedue le cose. Il linguaggio e la vita interiore – lo insegnate voi – sono avventure che si vivono insieme…

La conoscenza dell’anima, al di là dei luoghi in cui si attua, tutti degni di rispetto e attenzione, diventa una sorta di “visione” che muove dal desiderio, dalla brama, e indica, anche mediante il suo equivalente mitologico, Pothos, l’insaziabile anelito verso ciò che è remoto, distante e sconosciuto. La psiche è maestosa, e la sua infinita gamma espressiva non si esaurisce certo nel setting analitico. Così come i professionisti delle cure, o i filosofi, gli scrittori e tutti quelli che amano muoversi in territori sconfinati, non possono essere valutati secondo criteri “assoluti”, o essere trasferiti “in massa” dalle sacre soglie del paradiso a quelle dell’inferno o viceversa.

Forse è anche possibile credere nelle differenze, le sole che rendono individui, nel senso pieno del termine. Ogni esperienza d’analisi, così come ogni altra esperienza personale di rielaborazione delle immagini interiori, è un modo di entrare in relazione con l’identità e l’alterità, non il modo. Chiunque si accosti alla realtà dell’anima sa che è essa è, al pari dell’amore, vita e morte, dannazione e redenzione, contemporaneamente, e le sue immagini non fanno che riflettere quella “verità” che la ragione non sempre è in grado di accogliere…E alla fine…“si ama il proprio desiderio, e non quel che si è desiderato”…(Al di là del bene e del male, Friedrich Nietzsche)

Marialuisa Vallino

NOTE:

[1] Come spiegano gli autori del libro “Ultimo desiderio”, edito da Gelsorosso, Bari, 2013 (info@gelsorosso.it)
[2] Anima e Animus
[3] Michele Marolla, Gli incontri “sangueelatte” e il toy boy
[4] Eva Clesis, La tragedia e la fretta
[5] Michele Monina, I capelli rossi di Elizabeth Siddal
[6] Gabriella Genisi, Lo sfiato prima della fine del mondo e Strategie matrimoniali di sopravvivenza
[7] Berarda Del Vecchio, La bella lavanderina
[8] Esiodo,”Teogonia”, a cura di Gaetano Arrighetti, BUR, Milano, XIII ed., 2004, note al testo, pag.138